29 aprile 2008

ellekappa...

Ma che vi ridete?

A due anni e mezzo ho avuto la meningite.
Un febbrone che superava i 40 gradi e 24 ore durante le quali sembrava non fosse sicuro dovessi farcela.
Mia madre mi raccontava che, travolta da una preoccupazione immensa, di quelle talmente devastanti da non lasciarti nemmeno la forza di disperare, affacciata al balcone della nostra casa al secondo piano, durante una breve pausa d'aria che si prendeva mentre si alternava con papà al mio capezzale, si meravigliava che la gente che circolava in via Rivoltella, dove abitavamo, fosse spensierata e, ignara di quanto le stesse succedendo, osasse addirittura ridere, indifferente della sua pena. Stavo perdendo il senno della ragione amava raccontarmi per tranquillizzarmi, quando, anni dopo, mi vedeva afflitto da qualche preoccupazione. Mi domandavo, mi raccontava seria, come osassero ridere, visto che io rischiavo di perdere mio figlio. Non mi capacitavo che quella disperazione che mi toglieva il fiato fosse solo mia e non coinvolgesse nessun altro. E come poteva? Chi rideva non sapeva nemmeno che tu esistessi...
Ieri, mentre tornavo a casa su di un affollatissimo 769, mia madre mi è tornata in mente. Meglio, ho ritrovato mia madre dentro di me, come mi capita a volte, abbastanza spesso, quando un suo atteggiamento, una sua reazione, un suo punto di vista, diventano improvvisamente anche i miei. E' il mio modo laico per dire che mia madre, morta nel lontano 1990 (macché lontano, mi sembra ieri!), è qui con me, al mio fianco, non mi ha abbandonato mai (come purtroppo pensa mia sorella) e mi consiglia, mi stuzzica, ride divertita con me, continua a coltivarmi quel senso di autoironia che mi ha donato, la cosa per la quale le sono più grato (beh, dopo avermi messo al mondo beninteso... ma di quello devo ringraziare anche papà!).
Insomma sono lì, attonito, frastornato, incapace di credere che Alemanno abbia vinto le elezioni, tra l'altro l'ho saputo nel peggiore dei modi, alla tv della stazione della metro, detto con lo stesso tono con cui si può annunciare la vittoria della Roma al derby (ecchisenef...), guardo la gente sull'autobus gremito e cerco di capire, guardando le facce, chi possa aver votato Alemanno, chi si sia astenuto e chi abbia votato come me Rutelli, ma mi sembrano tutte facce brutte, vecchie, cadenti, rose da un destino di morte che le attanaglia tutte. Poi una ragazza al cellulare scoppia in una risata e lì mi trasformo in mia madre. Sto quasi per dirglielo ma che cosa ti ridi! ed è allora, per fortuna, che mia madre mi tira per la giacchetta, mi fa quel suo mezzo sorriso che secondo lei non notava nessuno, abbozzando con gli occhi come per dirminon fare come me quando avevi la meningite!.
Ho sorriso a quel pensiero, scrollandomi di dosso, almeno per un momento, l'oppressione di una sconfitta che mi preme sul petto e non mi fa respirare.
E allora ho capito che devo fare autocritica.
Non quella ipocrita e fondamentalmente fascista del perbenismo proletar-borghese del comunismo europeo di ispirazione sovietica (quello che porta Angi Vera al processo politico nel film omonimo di Pál Gábor).
L'autocritica cui mi riferisco riguarda la mia spocchia, quel senso di superiorità che mi ha sostenuto in tutti questi anni, la presunzione di credere che, pur convinto che le idee di sinistra non siano spontanee ma frutto di un duro lavoro di ricerca e di addomesticamento della bestia-uomo, quelle idee in me fossero in qualche modo spontanee. Questa spocchia, questa presunzione, o, come si diceva una volta, l'individualismo borghese di chi sapendo di avere ragione vede gli altri dall'alto in basso, va radicalmente modificata. Non tanto perché ormai a destra ha vinto, li avrò come interlocutori e quindi devo trattarli umanamente, ma proprio perché quest'aria di sufficienza con cui guardavo a destra mi ha impedito di capire i motivi di questa svolta a destra, le cui ragioni sono la vera e più profonda sconfitta della sinistra. Sono ancora convinto che le ..."idee" del centro destra non siano nemmeno degne di essere chiamate tali, che i "valori" (sic!) cui si rifà chi ha votato Alemanno (e il Pdl) si basino sull'ignoranza e la deficienza di cultura, di senso critico, sulla mancanza di senno, siano il sintomo di quel sonno della ragione che genera mostri. Ma così pensando ho anche io commesso lo stesso errore della sinistra: guardare ma non vedere tutte quelle persone, in carne ed ossa, che si allontanavano dai valori della sinistra, uguaglianza tra popoli, tra generi, difesa delle classi più povere, il diritto dovere al una visione critica delle cose, verso una weltanschauung più semplice, semplificata, monolitica, assoluta, priva di dubbi, di se e di ma, di relativistici distinguo. Che, insomma, mentre io mi pascevo di un orgoglioso "Io no" il Paese, chi mi stava intorno, le persone con le quali mio malgrado condividevo aria, servizi, strade, ospedali, cinema, teatri, cibo e città, andavano inesorabilmente a destra anche perché io, come tanti (tutti?) altri "di sinistra", ero incapace di mostrare loro che la vera semplicità è nella complessità, che l'errore è nel voler ridurre le differenze invece di accettarle nella loro caotica armonia.
Per cui va a finire che quelli fuori dal mondo sono quelli come me, quelli incapaci di trasmettere agli altri quel sano dubbio che da sempre li sostiene e li conduce ma che non ha saputo salvare dalla vanità frivola che faceva sentire diversi non già perché ci si comportava in modo diverso, ma semplicemente perché ci si sentiva diversi e dunque lo si era.
E il fatto che la sinistra debba occuparsi di sé invece che del popolo dalla deriva reazionaria, fascista e patriarcale, la dice lunga sul senso profondo di una sconfitta che non nasce da queste elezioni disastrose ma che con queste elezioni disastrose si conclude.
Se è vero che alle Istituzioni ci vanno i rappresentanti del popolo è giusto che i rappresentanti di sinistra non ci siano perché non c'è più il popolo di sinistra che è ormai un cadavere in putrefazione anche se finora avevamo fato finta di non accorgercene.
E ora, inorriditi, meravigliati, sconvolti, guardiamo al nostro corpo di Zombie e increduli ci accorgiamo che siamo (politicamente) morti.

E a risorgere è bravo Cristo non certo noi di sinistra...
(rivisto e parzialmente modificato il 2 magio 2008)

28 aprile 2008

What ever happend to Jill Jones???

Mi ricordo che avevo appena comperato il mio primo videoregistratore (cioè, mamma me lo aveva comprato...).

Era il 1986, il vcr era un Hitachi (ha funzionato ininterrottamente per 10 anni...), un modello moderno con caricamento frontale, era costato 600.000 lire (lo comperammo da Di Salvo a via della Lungara).
Il primo film che registrai fu Indiscreto (Usa, 1958) di Stanley Donen,


Il primo video Misfit dei Curiosity Kill the Cat,


poi fu la volta di Jill Jones. Una cantante di nessuna dote canora particolare, ma che sapeva scegliere i propri autori.

Si impose infatti con una canzone di Prince, Mia boca


e poi la ritrovai qualche anno dopo nel bel disco di Ruiki Sakamoto Beauty


Poi l'ho persa di vista....

Chissà che fine ha fatto...

(dalla rete...)
Il suo album di debutto fu intitolato col suo stesso nome Jill Jones (1987), distribuito su etichetta Paisley Park di Prince,che firmò i pezzi insieme a Jones, anche se li scrisse tutti da solo. Dopo la sua uscita l'album ricevette recensioni positive dalla critica, ma non fu un successo commerciale ed è fuori catalogo da parecchio tempo.

Diversi demo vennero registrati per il suo secondo album, sempre per la Paisley Park, così come il video "Boom Boom", but l'album non ha visto mai la luce. Nel 1993, Jill distribuì il singolo dance "Bald" per la Flying Records. Con l'aiuto del fotografo della Paisley Park e del suo amico intimo David Honl, Jones fa uscire finalmente nel 2001 il suo secondo album "Two" nel 2001, senza il contributo di Prince e più orientato verso il pop-rock. (fonte Wikipedia traduzione dall'inglese mia)

Mamma mia....




ASTONISHINGLY, il Cavaliere is back. At the ripe age of 71, Silvio Berlusconi won a convincing victory in Italy's general election on April 13th and 14th, giving him a big majority in both houses of the Italian parliament. There is every sign that his government will last. His political group, People of Freedom, has absorbed the right-wing National Alliance party, he has shed one unreliable ally in the centrist UDC party, and his main partner, the Northern League, will be reluctant to unseat him. Despite a dotty electoral system, foisted on the country by Mr Berlusconi himself in 2006, Italy may be in for five years of relatively stable government (see article).

Why did Italian voters return Mr Berlusconi for a third time, after his previous wins in 1994 and 2001? There are three answers. The most important was disappointment with the bickering centre-left government of Romano Prodi. It may have repaired Italy's unruly public finances, but only by the unpopular means of raising and collecting more taxes. It did little by way of broader reforms. Because the election came only 23 months after Mr Prodi took office, his successor as centre-left leader, Walter Veltroni, had too little time to establish himself as a credible alternative.

The second explanation for Mr Berlusconi's success is, as ever, his grip on Italy's media. Through his Mediaset empire, he controls most of Italian private television. Now that he is back in government, he will indirectly control state-run television too, giving him influence over some 90% of Italian TV. It is to the centre-left's eternal discredit that in its two recent periods in office it did nothing to deal with Mr Berlusconi's conflicts of interest in the media. Nor did it reverse the mish-mash of judicial and procedural laws that Mr Berlusconi pushed through to help him stave off conviction in the myriad court cases that Italy's magistrates have brought against him.
Still unfit

It was Mr Berlusconi's conflicts of interest and his tangled web of judicial proceedings that first led The Economist to judge him unfit to be prime minister (see article). We stick to that view. When he suggests that magistrates should be subject to mental-health checks, or when one of his close associates, a senator who is appealing against conviction for associating with the Mafia, says a convicted mob killer was a hero, there are good reasons to argue that Mr Berlusconi should not lead his country.

Yet the biggest challenge now for Mr Berlusconi does not concern conflicts of interest, court cases or the Mafia. It is the dire state of the Italian economy. Indeed, economic woes provide the third explanation why disillusioned voters preferred him to the centre-left. They felt that Mr Prodi's government had done nothing for them except to increase their tax bills. And, against all previous experience of Mr Berlusconi's tawdry governments, many people still want to believe in the magic that made him Italy's richest man. They hope that some of it may rub off on them, making all Italians richer.

Voters have good cause to fret about the economy. In the past two decades Italy has unquestionably become the sick man of Europe. The IMF forecasts that, both this year and next, its economy will grow by a mere 0.3%, the slowest rate of growth in the European Union and among G8 rich countries. This year Italy's GDP per head has fallen below the EU average for the first time. Next year, it will fall below Greece, after being overtaken by Spain in 2006. Even against a slowing world economy, Italy stands out for its dim prospects.

The country's slow growth has persisted under governments of centre-right and centre-left. Its causes are deep-rooted and structural, so they will take years to remedy. Italy is deemed by international watchdogs to be one of the most heavily regulated of all rich countries. Trade unions and special interests have repeatedly fought off attempts at reform. Infrastructure is crumbling, the investment climate is unwelcoming, inflation is troubling and productivity growth has been low (indeed, it has recently been negative). The education and health-care systems are deteriorating. Public administration is inefficient and corrupt, especially in the south—the latest evidence being the Naples garbage mountain.
Time to liberalise

What Italy needs is wholesale liberalisation and the promotion of more competition to reinvigorate its legion of entrepreneurs and small businesses. There is no reason to assume that it would fail. The north of Italy has done well even as the south has stagnated. Italian exporters have proved nimble and creative. Fiat has been transformed. The banks, once notoriously inefficient, have become internationally competitive.

Mr Berlusconi and his finance minister and chief ideologue, Giulio Tremonti, now have a golden opportunity to build on these successes by exploiting their huge parliamentary majority to bring in sweeping supply-side reforms. The question is whether they will take it. The ousting of the far-left from parliament may risk making confrontations over reforms or spending cuts worse. But if the government succeeds in reforming, our verdict on Mr Berlusconi would have to be tempered by the acknowledgment that even he is capable of improvement. Unfortunately there are grounds for scepticism about the new government's reforming credentials.

Mr Tremonti has taken to railing against globalisation as the primary cause of Italy's (and Europe's) problems. The Northern League, which did well in the election, is even more overtly anti-immigration and protectionist. Mr Berlusconi's own words about the future of Alitalia, the country's sickly airline, suggest that he is keener on state-fostered national champions, however inefficient, than on the discipline of the free market. Indeed, he and Mr Tremonti often prefer to cast blame on the EU, the euro and the European Central Bank than to accept that Italy's ills are largely home-grown.

Yet the omens are not all bad. Mr Berlusconi seems to understand, belatedly, the seriousness of Italy's economic situation. His comfortable majority means that he has no more excuses for putting off reforms. This will be his biggest test; hope, for Italy's sake, that he passes it.
(tratto dal sito economist.com


Qualche informazione sul settimanale...
The Economist è apertamente a favore di una linea politica conservatrice in materia fiscale, dunque si può considerare un tipo di stampa opinionista che sostiene un determinato schieramento politico.(fonte Wikipedia)


Se non piace nemmeno a loro... può piacere solo a quegli italiani che fanno del furto, dell'inganno, della menzogna e dell'interesse personale le coordinate morali e politiche della loro vita...

27 aprile 2008

Ale... ma nno....

ti sbagli! Vedrai che i tuoi concittadini non voteranno per un fascista che si è alleato con Forza Nuova


e con quelli del Trifoglio (che chi legge il mio blog già conosce bene),

cioè con chi crede che la donna sia inferiore, i gay dei malati e gli extracomunitari tutti dei delinquenti.



Oggi e domani si vota. Votiamo tutti. Votiamo bene!

26 aprile 2008

OGGI TORNA SILVIO!!!!

Quando c'era Ingrid Bergman...



...anche mamma era viva e la sua presenza (di Ingrid, non di mamma...) per me significava cinema, professionalità, expertise nel recitare. Ingrid era stata la compagna di Rossellini, la madre di Isabella (per tacer degli altri...), aveva recitato in Angoscia, in Notorius, in Sotto il capricorno e Io ti salverò. Tutti film che mia madre subiva con irrefrenabile trasporto trasmettendomi non già per via genetica ma per via empatica il fascino di donne forti malgrado loro stesse l'immagine che mamma doveva avere di sé, giovane e maldestra separata, che ha cresciuto due figli da sola nei politicizzati anni settanta, tra le prime usufruire della legge sul divorzio ufficializzando una separazione di fatto avvenuta già dal 1969, quando, mamma incinta di mia sorella, papà tentò il suicidio per la prima volta (ci riuscirà solo molto più tardi, nel 1984...), un uso discreto della legge: mamma non divorziò mai, rimanendo ufficialmente separata (sembra il titolo di un album di Loredana.

Per me, negli anni, Ingrid rimase Anna Kalman, la protagonista di Indiscreto nella quale mi identificavo io, una donna volitiva libera anticonformista e per rappresentare la complessità dei mie stati d'animo non bastava nessun personaggio maschile, tutti inamidati in un ruolo certo e determinato, io figlio di quel dubbio che indicava non già la mancanza di certezze ma l'onestà intellettuale di chi sa di non poter pretendere che il mondo assuma un solo significato...
Poi quando Ingrid morì, nel 1982, in seguito a un devastante cancro al seno, Gian Luigi Rondi le dedicò un ciclo nel quale scopri perle per me sconosciute (La vendetta della signora, Le piace Brahms?.

Poi, all'università, arrivò la sua consacrazione per aver lavorato con Rossellini (ricordo il fascino di sentire la sua voce vera per la prima volta nel noiosissimo ma indimenticabile Stromboli terra di dio.


Delle tre attrici che abitano il mio Olimpo delle attrici Ingrid convive con Katarine Hepburn e Bette Davis, ma solo con Ingrid mi sento in confidenza, mi pare di conoscerla davvero (anche se ci sono tante cose che ancora ignoro, come per esempio la sua storia con Robert Capa...), me la raffiguro come una zia dei tempi andati che ci veniva a trovare di tanto in tanto. Una zia che rivedo sempre anche quando faccio lezione a scuola (uso molti suoi film come esempi per i miei studenti) e non mi pare solo di riconoscerla ma di conoscerla.


già non più giovanissima mentre la bellezza giovanile trascolorava in una maturità austera, da regina

25 aprile 2008

23-26 aprile 2006

Due anni fa, ora, i trovavo a Dublino, con alcuni miei amici che non vedo quanto vorrei, in parte persi per strada (Alessio, Chiara ma che fine avete fatto???) altri che (almeno!!!) sento ogni tanto per cell (Ciao Daniele!! Ciao Auroraaaaa!!!.

wish I was there again...



Il 25 aprile...



Nel 1995 il manifesto fece uscire dei fascicoli sul 25 aprile. Visto che oggi, sempre di più, la festa di liberazione nazionale viene vista come la vittoria di una fazione (sci!) della guerra civile (sic!!!) (pensate al Risorgimento romano il Vaticano sarebbe la fazione che ha perso... non lo stato estero che impediva la nascita di quello italiani...) ripubblico questo articolo di Rossanda.

In molti - al suo sorgere - pensarono che il fascismo sarebbe durato pochi mesi. Niente di più che una parentesi...

Non un colpo DI STATO

Cosa fu il fascismo? perché si affermò e durò più di vent'anni? Domande su cui si sono divisi gli storici e i militanti politici, interrogativi che soprattutto oggi non possiamo eludere. Le radici del regime affondano nella crisi della cultura politica europea, amplificata dalla guerra: antiparlamentarismo, bisogno di leader carismatico, azzeramento del conflitto di classe nell'aziendalismo, razzismo e antisemitismo ne furono gli elementi costitutivi. Per nulla transitori e ancora attuali.

Rossana Rossanda

Diavolo, siamo diventati fascisti! In quale giorno, mese e anno mio padre può avere esclamato queste parole? Mio padre, per dire un uomo non più giovanissimo, colto, pacifista e avvertito. Non gli ho mai chiesto quando si fosse accorto che una pagina era voltata, e si andava ad avventure pericolose. Nessuno era fascista a casa mia, ma quando si erano resi conto, gli italiani per bene nati a cavallo del secolo, che erano su una via di non ritorno?
Non fra il 1914 e il 1915 - quando Mussolini, espulso dal Partito socialista, lanciava l'appello del "Fascio rivoluzionario di azione internazionalista" e poco dopo fondava, con i soldi degli industriali interessati alla guerra "Il Popolo d'Italia", che sarebbe rimasto fino all'ultimo il giornale del regime. Pareva uno dei tanti interventismi che dovunque avevano spaccato i partiti socialisti in Europa. E lo stesso quando, dopo Caporetto, fra una denuncia e l'altra per la sconfitta si formava presso il Senato il "Fascio parlamentare di difesa nazionale" cui aderivano ben 250 fra deputati e senatori. E il "Popolo d'Italia" si scagliava contro i socialisti e il "bolscevismo". Né quando nel 1919 [l'avvocato Olivetti aveva inventato la dizione "fascisti"] a Roma e a Milano convergevano Mussolini, gli "arditi d'Italia", i futuristi di Marinetti e Gabriele d'Annunzio. Mussolini definiva il fascismo come "un movimento spregiudicato" - oggi si direbbe nuovissimo e trasversale.
Forse la preoccupazione dilagò fra il 1921 e il 1922 quando gli squadristi andavano con revolver e bombe a mano, a Milano, Genova, Trieste, contro la protesta operaia. Al congresso del giugno 1922 erano quasi 450.000. E tuttavia gli italiani - a meno di essere sindacalisti e comunisti - parevano più impressionati dal marasma delle istituzioni che dai fasci. E forse tirarono il fiato quando in fin dei conti il 28 ottobre Mussolini fu chiamato da Facta e poi dal re in persona ad assumere il governo - la marcia su Roma non ebbe luogo, non ce ne fu bisogno. Forse la prima vera percezione che si era in un regime, i più la ebbero con il discorso di Mussolini il 3 gennaio del 1924, molti mesi dopo l'assassinio di Matteotti.
E' interessante riandare a questi avvenimenti e ai loro vistosi segnali, perché i due fascismi veri e propri, quello italiano di Mussolini e quello tedesco di Hitler, non hanno nulla del colpo di stato - sono presenti, dichiarati, tollerati e sostenuti a lungo sulla scena. Negli anni Settanta i movimenti italiani pensarono al fascismo come a un'avventura militare - simile al Cile, un golpe. E fose lo pensano i giovanissimi oggi. Ma non fu così. In Italia e in Germania il fascismo si presentò come un movimento eversivo di estrema destra e crebbe e si insediò regolarmente, per così dire legalmente, e con molte benedizioni. Compresa quella dei liberali, i quali trovarono giustissimo che di fronte al movimento popolare di protesta si chiamasse al governo un bastonatore delle piazze. Se ne sarebbero doluti dopo, quando furono buttati fuori: ma anche allora sostennero che il fascismo da principio era una buona cosa. Anche in Germania Hitler nasce dopo la guerra, e perdipiù sul rancore della sconfitta, e tra il 1920 e il 1921 il suo partito apertamente si organizza in struttura paramilitare. Ma aveva l'appoggio dei grandi industriali: Thyssen confesserà a guerra finita che aiutò Hitler sapendo quel che era, perché rispondeva ai suoi interessi, e se ne era pentito soltanto nel 1939. Nel 1926 gli iscritti al partito nazista erano circa cinquantamila: fino a diventare un milione e mezzo nel 1932. In quell'anno si presero il 37 per cento dei voti alle elezioni, raddoppiando quelli di quattro anni prima. Come il fascismo, il nazismo è visibile, non si nasconde. Né l'Italia né la Germania sono state sorprese e ingannate. Si dice oggi che una responsabilità della loro insorgenza si deve alla minaccia di una sinistra comunista e rivoluzionaria.
In Germania lo storico revisionista Nolte, bene accolto anche da noi, lo dichiara una comprensibile reazione ai comunisti e all'Unione Sovietica. Ma è da dubitare che nell'Italia del 1922, quando Facta chiama Mussolini, si temesse una rivoluzione proletaria: il partito comunista era appena nato, modesta minoranza uscita dal Partito socialista, l'occupazione delle fabbriche era spenta nel 1920; infuriava la crisi, non la rivoluzione. Tanto meno in Germania: nel 1932 il grande movimento rivoluzionario era battuto da oltre dieci anni, era divampato e fu soffocato nel 1918 e i suoi leader, Liebknecht e Rosa Luxemburg, assassinati. Hitler vince agitando il sogno del Terzo Reich, una Germania possente che si spinge all'est, che si vendica delle umiliazioni subite, che non ha conflitti sociali, con un capo carismatico che affermerà l'ideale tedesco contro le razze minori. E' una pulsione violenta, risponde alla crisi postbellica e poi alla stretta del 1929, alle quali la repubblica di Weimar non ha saputo come far fronte, ma non perché fosse troppo a sinistra. Al contrario, la strada alla dittatura è spianata da una grande socialdemocrazia sempre più di destra e un partito comunista sempre più settario, una spirale fatale. La gente comune, italiani e tedeschi, diranno poi di non avere neppure sospettato che fascismo e nazismo li avrebbero portati al totalitarismo, alle leggi razziali e allo sterminio degli ebrei, alla guerra. Ed è vero, sponsors e seguaci non hanno chiaro dove si va a finire, ma hanno chiaro dove si comincia, non è un inizio innocente, e poi accetteranno il tragitto grado per grado. Uno storico come Renzo De Felice ammonisce che nel 1919 l'Italia non era ancora fascista, che quando lo divenne non intendeva diventare totalitaria, che quando fu totalitaria non pensava alla guerra e fece le leggi razziali perché in Germania c'erano da un pezzo - ma è soltanto una lettura rovesciata del percorso, che va letto nell'altro senso. Le scelte antidemocratiche, antioperaie, colonialiste, antisemite e belliciste erano delineate, stavano negli umori, e quando furono esplicitate la gente le accettò, malgrado qualche mormorìo. Non hanno una vera data perché non sono la svolta repentina davanti alla quale si sussulta e grida: basta. No, da cosa nasce cosa.
Ma da quali cose nasce la cosa fascista?
Questa è la vera domanda da farsi, per capire se il fascismo è ancora un pericolo. I padri fondatori della repubblica ci dicono di no. Hitler e Mussolini si iscrivono in un contesto differente.
E' passato oltre mezzo secolo e la storia non si ripete mai. E' vero. Ma questa ovvietà ha aiutato Gianfranco Fini a portare in meno di un anno il grosso delle truppe dal Movimento sociale italiano, che si diceva esplicitamente fascista, ad Alleanza Nazionale, che dice di non esserlo. La deputata di An che afferma: "Non sono antifascista perché ho poco più di vent'anni e con fascismo o antifascismo non c'entro" è sincera. E appaiono fuori tempo i missini duri e puri di Rauti e Pisanò come i naziskin, sono così marginali da non potersi considerare un pericolo.
E tuttavia nella dichiarazione che il fascismo è fuori dal nostro mondo qualcosa non persuade. In che cosa sono estranee al nostro mondo le condizioni dalle quali è nato, le sue idee e le sue pratiche? Bisognerebbe convenire, per affermarlo, con la tesi della fine della storia di Francis Fukujama: ormai il mercato è diventato un felice regolatore della crescita e la democrazia domina dovunque pacificamente, perché il comunismo è fallito. Ma la crescita si sta verificando tutt'altro che lineare, apre voragini impensate e da tutte le parti esplodono guerre. Sacche di frustrazione e voglie di rivincita, religiose e no, sono non meno estese che nel 1919. Va dunque visto con serietà che cosa in realtà il fascismo è stato. Quale fu l'errore di chi lo incoraggiò o non lo vide? Prima di tutto, esso apparve un fenomeno marginale. Era estremista e sovversivo, dunque sarebbe stato minoritario e transitorio. Così ritennero sia la destra classica sia la sinistra italiana nei primi anni Venti, e così ritenne tutto l'establishment tedesco a cavallo dei Trenta. I fascisti sono una parentesi. Lo pensa Benedetto Croce, lo pensano i molti professionisti, perlopiù economisti, che entrano nei primi governi di coalizione di Mussolini pensando di servirsi della sua forza e dominarlo con la loro competenza.
E' una cecità più interessante della scelta degli intellettuali che gli resteranno a lungo fedeli - i Papini, i Prezzolini, molti della "Voce", i futuristi, D'Annunzio, grandi pittori come Sironi, grandi architetti come quelli del Movimento Moderno.
Costoro vedono nel fascismo [nella rivoluzione fascista, ché tale si chiama] una innovazione radicale rispetto alle meschinità, al conservativismo, al puzzo di burocrazia e sacrestia dell'Italietta moderata. Dopo l'orrore della prima guerra mondiale, che era stata un macello, gli inverni fra i fanti assiderati o squartati in trincea, gli assalti alle baionette, i fucilati per diserzione, i patimenti del dopoguerra, il moderatismo riproponeva la stessa solfa, mediocre e politicante. Li affascina del fascismo la reazione alle chiacchere dei ceti politici e nella rottura con le forme ottocentesche intravvedono un'avventura vitale. Si può rompere da destra e da sinistra, in Italia una sinistra c'è, e non è soltanto la protesta operaia e in parte contadina: c'è la cultura dell' "Ordine Nuovo", ci sono Gramsci e Gobetti, così diversi dal vecchio partito socialista, che pure in Turati, Treves o Andrea Costa non ha figure di basso profilo. Ma l'intellettualità rompe da destra, perché il potere ha un fascino, e il fascismo ha il gusto della trasgressione, del "gesto" e della "visibilità", è il primo fenomeno politico mediatico. Poi diversi intellettuali si ritireranno, e alcuni, per esempio gli architetti, passeranno all'antifascismo attivo; ma tardi, e la loro sarà una rivolta morale, più che l'esito di una analisi politica. Di che materia fosse fatto il fascismo, perché si radicava invece che spegnersi appena finito lo sporco lavoro, si chiesero soltanto le forze politiche -liberali, socialisti in esilio e comunisti.
Ma quale è la loro diagnosi? Anche quando lo riconosce come una sciagura radicata, l'anima liberale pensa che il fascismo non è che una parentesi. Non durerà, pareva vacillare nel 1924, rivacilla nel 1926. E' un errore della storia. Ancora tardi su "Critica Sociale" Rodolfo Mondolfo se ne stupisce, come Croce.
Non è connaturato alla borghesia, che è sostanzialmente democratica e il contrario dell'estremismo. E' una specie di incidente di percorso. Né i liberali sono illuminati dallo zelante allineamento dei grandi gruppi agrari e industriali con il regime.
A sinistra, nel giovane Partito comunista, la posizione è paradossalmente speculare. In Amedeo Bordiga, figura coerente, avversario di Gramsci che Gramsci rispettava, la lettura è analoga: il fascismo è uno strumento secondario del capitalismo e sarà presto sostituito dal capitalismo più forte. La vicenda italiana e soprattutto tedesca non è che un frammento della lotta fra imperialismi, nella quale la Germania e l'Italia rappresentano la parte debole e il nemico principale va visto nel capitalismo classico e forte, quello anglosassone e americano. Bordiga starà con molta dignità al confino, e poi, uscito, non sarà disponibile a nessun tentativo fascista di contattarlo; ma non parteciperà alla lotta antifascista. Pensa che tutto sommato, se vincesse la Germania sarebbe un colpo al potere capitalistico mondiale.
Si deve a Gramsci un'analisi più complessa. "L'Ordine Nuovo" e più tardi le "Tesi di Lione" vedono nel fascismo una forma diversa di dominio capitalistico, che riesce a convogliare le nuove masse contro se stesse: è una risposta perversa alla crisi, alla oscurità del futuro, al bisogno di risarcimento e di vendetta. Il fascismo si rivela il sistema di segni e simboli più capace di far leva su sentimenti antichi e rinnovati, plebei più che popolari ma profondi e niente affatto transitori. Il popolo ha pagato la guerra con il sangue e su di esso cadono i pesi della distruzione. Nel combattentismo, nel reducismo, nel rifiuto dell'ordine - che i fascisti convogliano in torbidi umori, il nazionalismo [l'odiata Francia, la "perfida Albione"], l'ossessione della demo-pluto-giudaico-massonica congiura contro la nazione - trovano eco ferite autentiche. I colpevoli sono additati nei partiti, nel parlamento imbelle di mangiapane a ufo, nella burocrazia dello stato; ma anche ad essa si indicano come nemici le sinistre, l'operaio che è bolscevico, i contadini che pretendono la terra, "agitatori" che provocano "disordine".
Occorre un esecutivo forte, anzi un uomo forte, un paese unito dalla sua volontà e il suo prestigio.
Hanno poco tempo, i comunisti dell'Ordine Nuovo, per capire le contraddizioni dolenti dalle quali nasce la voglia popolare di destra, il fascino del "diciannovismo" - anche quello della violenza, che parla alla frustrazione giovanile. Sono le Tesi dette di Lione, nel 1925, che definiscono la "natura di massa" del fascismo, anche se non se ne deriva una strategia di lotta diversa dalla rivoluzione socialista. E il fascismo apparirà a lungo assieme minaccioso e in difficoltà, come nel 1924 dopo l'assassinio di Matteotti. Nel 1926 Gramsci è arrestato. Nel 1929 Togliatti per l'Internazionale Comunista definirà il fascismo l'espressione estrema e sciovinistica del capitale finanziario e industriale, ma resta la paralizzante identificazione tra socialdemocrazia e fascismo. Su questo si divideranno anche i compagni in carcere: per Gramsci occorre trovare una trincea intermedia di lotta, poi dirà una "Costituente", ma resta isolato.
Fino al 1935 la questione dei fascismi in Europa - si sono formati da tempo in Portogallo, stanno rovesciando la repubblica in Spagna, sono avanzati in Grecia, nel 1934 hanno messo la Francia in pericolo - rappresenta il punto acuto della sconfitta delle rivoluzioni in Europa. Bisogna capire dove si è sbagliato. E come sempre dopo le sconfitte, il movimento si divide. Si ritroverà con uno slancio mai conosciuto prima nei fronti popolari, che a quella domanda danno una risposta mobilitante. Ma è tardi, il fascismo corre verso la guerra e la rovina di milioni e milioni di uomini.
Anche la società italiana ricomincerà a guardare a se stessa dopo la metà degli anni Trenta. Con fatica, e non soltanto perché la repressione è durissima. Ma perché il senso comune fascista si è esteso dovunque, o in termini sovversivisti [ma è una minoranza], o in termini di rassegnazione [e sono molti] o in ancora oscure speranze nel Capo. Folle osannanti salutano l'impresa etiopica, si schierano per Franco in Spagna e accolgono la dichiarazione di guerra. Le piazze non sono tutto il paese, ma rappresentano una realtà. Saranno mandate a "conquistare la Francia" già a terra, e in Albania e in Grecia troveranno un osso duro da rodere. Ma soprattutto saranno spedite con scarpe di tela e giacche di orbace nell'immensa pianura russa e vi morranno. L'Italia è a pezzi l'8 settembre.
E' un duro risveglio, una lezione terribile. Alle loro delusioni e mortificazioni era stato dato un falso obbiettivo e gli errori si pagano. La natura profonda del fascismo era sfuggito ai democratici e, pare a me, sfugge a coloro che ne garantiscono la fine storica.
E' vero che dalla sua tragica parabola l'Europa - è un figlio dell'Europa - qualcosa ha imparato. Ma negli ultimi anni non riconosciamo nella trama dei giorni e nel logoramento della politica un filo con il quale si sono tessute terribili tele? La polemica antipartitica e antiparlamentare facilmente si ribalta da sinistra a destra; si direbbe che è più consueto questo movimento che quello inverso. E la voglia di un leader carismatico, di governi forti? e la negazione del conflitto di classe, l'identificazione forzosa di lavoratori e padroni nell'azienda? e il razzismo risorgente come guerra fra i poveri? e l'antisemitismo, bestia mai spenta, sempre in agguato negli angoli oscuri della società? Questi sono eterni fenomeni delle crisi europee. Sono radicati nella cultura. Non c'è in essi nulla di transitorio o esorcizzato per sempre. L'interesse per la storia del fascismo italiano sta in questo.
(dal sito del manifesto).

Se oggi io sono qui e posso scrivere questo mio blog lo devo alle partigiane e ai partigiani, di qualunque orientamento politico, anche di quella parte che qualcuno vorrebbe irredimibilmente a me avversa, che sono morti mentre rendevano possibile la Repubblica Italiana.
A loro va la mia più grande e totale riconoscenza.

24 aprile 2008

Presidio di Donne

(foto tratta dal sito Amabilmente)




PRESIDIO DI DONNE
Campo di Fiori – Roma
Giovedì 24 aprile
Dalle ore 19.00




In risposta all’ennesimo abuso di una giovane donna aggredita e violentata alla stazione La Storta.

Le donne di Roma esprimono la loro solidarietà e vicinanza alla ragazza stuprata. Come abbiamo affermato con forza nella manifestazione del 24 novembre 2007 a Roma, la violenza maschile sulle donne non ha confini e non sarà nessun decreto sicurezza a porvi fine, né braccialetti né ronde. Non accettiamo nessuna strumentalizzazione politica e partitica, a fini elettorali o di campagna xenofoba e razzista. Invitiamo tutte le donne e tutte le realtà femminili, femministe e lesbiche a ritrovarsi in piazza.

Solo la solidarietà fra donne può fermare la violenza patriarcale, da sole la subiamo, insieme la sconfiggiamo.

per adesioni: info@controviolenzadonne.org

il blog di controviolenzadonne.org

Che fine ha fatto Alitalia




Un disastro perfetto con regia bipartisan
Romano Prodi e Silvio Berlusconi hanno pilotato per 14 anni ogni passaggio del declino di Alitalia. Tra velleità di privatizzazione, disegni imprenditoriali fumosi, una successione di manager spesso a digiuno dei fondamentali del trasporto aereo. Una lunga serie di ristrutturazioni che hanno sfasciato la compagnia e chi ci lavora dentro

Due nomi segnano il tracollo della compagnia di bandiera: Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Poi c'è la lunga lista dei comprimari, che comprende la lunga lista di presidenti e amministratori delegati profumatamente pagati per smontare pezzo pezzo un gioiello dell'economia mista.
Sia chiaro: i due personaggi che si sono alternati nel ruolo di primo ministro hanno agito con finalità e strategie differenti. Ma nel gioco delle reciproche correzioni hanno finito per confezionare quello che potrebbe diventare il primo fallimento di un'azienda di stato nella storia di questo paese. Tanto per farsi un'idea, è dal 1998 che si dà per certa la «privatizzazione».
L'unico a.d. capace di presentare un piano industriale degno di questo nome resta ancora oggi Domenico Cempella, architetto dell'alleanza con Klm, che giustificava la trasformazione di Malpensa in hub internazionale. Alla fine degli anni novanta, però, il progetto finì in pezzi grazie a quelli che oggi si dichiarano i primi difensori dell'aeroporto varesino: i «milanesi». Intesi come cittadini e come amministratori. I primi continuarono infatti a preferire Linate, assai più facile da raggiungere (è praticamente «dentro» la città, un po' come Ciampino a Roma). I secondi tardarono a costruire le necessarie infrastrutture di collegamento, tanto che ancora oggi Malpensa è di una scomodità mostruosa per chi deve raggiungere Milano. Sia come sia, gli olandesi - che volevano anche garanzie certe sui tempi della privatizzazione - preferirono pagare 500 milioni (di lire) di penale pur di «liberarsi» di quei pasticcioni degli italiani (padani compresi, of course). Portarono i libri in tribunale di lì a pochi mesi, venendo poi inglobati da Air France. Cempella prese atto del fallimento del suo progetto, nel bel mezzo della più spaventosa crisi del trasporto aereo - successiva all'11 settembre 2001 - dimettendosi.
Di lì in poi la frana divenne inarrestabile. Il centrodestra fa il suo miglior capolavoro nominando l'ex sindaco di Gallarate a presidente della compagnia e Francesco Mengozzi come amministratore delegato. I due sembrano perseguire disegni strategici divergenti. Il primo viene sospettato dai sindacati di voler portare l'azienda vicino al fallimento per favorirne l'acquisto da parte di Volare Web (una compagnia low cost con base proprio a Gallarate e capitali in odor di Lega). Il secondo sposa ben presto la pista francese e raggiunge un accordo con Jean-Cyril Spinetta: ingresso nell'alleanza Sky Team, scambio azionario con i francesi e un posto nel cda per lo stesso Spinetta. Il «piano industriale» che ne viene fuori sembra disegnato apposta - sarà una costante, fino all'ultimo di Maurizio Prato, un anno fa - per venire incontro alle esigenze di espansione di Air France. Il taglio delle rotte è deciso. La scelta è quella di «concentrarsi sulla difesa del mercato interno» per poi riprendere peso sulle rotte internazionali. Peccato che il mercato interno sia in quel momento preda delle low cost (grazie all'assenza di regolamentazione uguale per tutti i vettori, come invece avviene ancora oggi in Francia) e che le tratte intercontinentali siano le uniche a garantire redditività, proprio perché sottratte alla concorrenza sleale. Mengozzi arriva al punto di affidare ad Air France l'esclusiva dei voli verso Parigi da sei città «ricche» come Torino, Bologna, Verona, Venezia, Genova, Trieste e a chiudere le tratte per Los Angeles, Hong Kong, Pechino, Rio de Janeiro, ecc. Inutile dire che a ogni «piano» corrisponde una marea di «esuberi», l'aumento delle ore lavorate, il blocco sostanziale delle retribuzioni.
A Mengozzi succede nel 2004 Marco Zanichelli, considerato in quota An, e prosegue perciò il conflitto con Bonomi. La paralisi - che non implica la rinuncia ad altri tagli del personale - porta alla decisione di dimissionare entrambi e arruolare Giancarlo Cimoli, ex prodiano che si era fatto una fama di «tagliatore di teste» nelle Ferrovie dello stato (senza peraltro migliorarne le prestazioni economiche e industriali). Nel 2005, oltretutto, Alitalia deve caricarsi del peso di Volare Web, disgraziatamente fallita prima di poter «conquistare» la compagnia di bandiera; oltre a dover mantenere un numero abnorme di voli su Malpensa (non più giustificati, da anni, dopo la rottura con Klm). Si scopre poi che soltanto i «costi impropri» derivanti dall'attività sullo scalo varesino valgono i due terzi del «buco» nei bilanci di Alitalia.
Il ritorno di Prodi a palazzo Chigi coincide con la follia finale. Le privatizzazioni sono una parola d'ordine indiscutibile Per Tommaso Padoa Schioppa e Pierluigi Bersani. Si indice perciò una gara d'asta cui vengono inizialmente ammesse cinque «cordate»: Ap Holding (AirOne), Texas Pacific Group, Matlin Paterson, Cdb Management e Aeroflot (insieme a Unicredit). Stranamente manca in candidato principale, Air France, il cui amministratore è stato fino a un attimo prima nel cda e conosce quindi l'azienda come le proprie tasche. I concorrenti si sfilano uno alla volta, per un motivo (la «mancata italianità») o per l'altro (la mancanza di soldi). A quel punto Padoa Schioppa incarica il cda (nel frattempo sostituito ancora una volta, con alla testa Prato) di trovarsi un compratore. Non si era mai visto un azionista così disinteressato a un proprio asset. Ma del resto non si era mai neppure visto un imprenditore - né pubblico né privato - fare spot pubblicitari gratuiti per un concorrente. Padoa Schioppa fa anche questo, dichiarando che «io volo con Easy Jet e mi trovo benissimo». Un modo eccellente di «promuovere» ciò che si sta vendendo...
In ogni caso Alitalia ritrova il suo vecchio amore: Air France (che nel frattempo ha riassorbito anche Klm). L'azienda approva il budget 2008 in cui si parla della necessità di una ricapitalizzazione da 750 milioni, taglio dei voli su Malpensa, aerei da mettere a terra (è un «piano di sopravvivenza», non certo di «rilancio»). Il prezzo offerto dai francesi è davvero minimo: 138,5 milioni. «Meno di un solo bireattore», commenta il giornale Les Echos. Ma va bene lo stesso, visti i debiti e la necessità di investire. In pratica è un regalo. Unici ostacoli: il sì del sindacato e quello di Berlusconi, complice l'imprevista crisi del governo Prodi. Siamo ai giorni nostri. All'epilogo di un disastro ferocemente «bipartisan» in ogni istante della sua storia.

Francesco Piccioni

(dal Manifesto del 23 aprile 2008)

Questo e quello per Alital pari sooonoooooooo

23 aprile 2008

a maggio? L'ottava stagione di Buffy!!!


Grazie ad andrea per la segnalazione!

Augelli aspri 2




ROMA - Le prime stime dell'INAIL sulle morti bianche per l'anno 2007 parlano di circa
1.260 morti sul lavoro a fronte dei 1.341 dell'anno precedente. Si tratta di numeri stimati ma attendibili e semmai approssimati per eccesso. Infatti il dato non ancora consolidato, ovvero il numero effettivo dei casi mortali registrati negli archivi gestionali dell'Istituto al 29 febbraio 2008, risulta pari a 1.147. E appunto su questo dato fanno leva i procedimenti statistici di stima previsionale che per l'anno 2007 individuano un numero di infortuni mortali compreso in un range tra 1.240 e 1.260 casi.

Trend di lungo periodo.
Negli ultimi cinquanta anni le morti bianche in Italia sono comunque notevolmente diminuite. Nel 1956 i morti del lavoro erano 3.900 per salire a 4.644 nel 1963, anno di massimo storico per gli infortuni mortali ma anche di forte sviluppo industriale (sono gli anni del boom economico). Nel 1966 gli infortuni erano di nuovo scesi a 3.744 e da lì è partito un lento ma continuo decremento: 2.793 nel 1976, 2.083 nel 1986, 1.372 nel 1996, 1.546 nel 2001, per finire con 1.260 dello scorso anno. Un andamento simile hanno registrato anche gli infortuni non mortali, sebbene non in maniera altrettanto lineare e con un calo non altrettanto marcato. Basti ricordare che erano 1.150.354 nel 1956, 1.283.667 nel 1976, 1.023.379 nel 2001 e 928.158 nel 2006.
(fonte sito INAIL)


I dati statistici dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro rivelano che tra il 1995 e il 2004 gli infortuni mortali in 15 paesi europei sono calati del 29,41 per cento (da 6.229 morti siamo passati a 4.397). “In Italia” si legge nel rapporto dell’Anmil, la diminuzione è stata “solo del 25,49 per cento, un dato meno esaltante rispetto a quello di paesi come la Germania (meno 48,3 per cento) o la Spagna (meno 33,64 per cento)”. Ma le statistiche si sa, vanno prese con le pinze. A Panorama.it gli esperti di Osha sottolineano che per alcuni paesi come il Lussemburgo, dove i fatal accidents sono scesi da 14 a 6, “è facile presentare percentuali altissime di decrescita. In realtà la situazione italiana è in linea con la media europea”. Dai dati Eurostat si scopre che nel 2005 l’Italia aveva una media di 2,6 lavoratori uccisi ogni 100 mila occupati contro 2,3 nel resto del continente. In calo del 50 per cento rispetto al 1994, il tasso si conferma superiore a paesi come l’Austria (4,8) o la Spagna (3,5), e a pari merito con il Lussemburgo. Ma il trend non deve ingannare: a conferma che le morti bianche rimangono un’emergenza sono i 1.302 occupati italiani deceduti sul posto di lavoro nel 2006. Più di Francia (537) e Regno Unito (241) messi assieme. (fonte il sito di PANORAMA)





Come mai i media, dopo i morti della Thyssenkrupp, improvvisamente si preoccupano di denunciare le morti bianche, belluinamente ignorate fino a una fa?

Ricordate? L'Inail aveva appena dato il numero dei morti e degli infortunati e canale 5 aveva ignorato la notizia, mentre Cristina faccia-di-bronzo Parodi annunciava la colletta per la famiglia di Raciti l'ufficiale di polizia rimasto ucciso durante gli scontri nello stadio di Catania.

Ora invece la notizia fa trend e tutti si meravigliano dei morti.

E' questione di cultura, cultura della legalità, cultura della responsabilità, della solidarietà. Mancando non deve meravigliare che l'Italia non voti a sinistra. Gli italiani NON SONO DI SINISTRA questi dati lo confermano superbamente.

Perché il TG5 non organizza collette per i familiari dei 6 morti di ieri come ha fatto per la famiglia Raciti?

Meditate gente, meditate...

19 aprile 2008

Augelli Aspri



Leggo sul sito di Grillo la sentenza preliminare nel tribunale di Fermo (AP) del processo per omicidio colposo che vede come imputati l'amministratore delegato dell'Asoplast Giuseppe Bonifazi e l'amministratore delegato della ditta Mag System Srl con sede in Schio, Mario Guglielmi, costruttrice della macchina modello T A 1000/S C/8.
La macchina ha ucciso, il 20 giugno 2006, Andrea Gagliardoni, presso la ditta Asoplast di Ortezzano, schiacciandogli il cranio.

Bonifazi è accusato di non aver messo a disposizione di Andrea un'attrezzatura idonea, e di aver disattivato l'unico sistema di sicurezza, per velocizzare la produzione.

Guglielmi, è accusato di aver costruito ed apposto il marchio CE ad una macchina non conforme ai requisiti essenziali di sicurezza previsti dall' allegato 1 del D.P.R. 459/96, delle norme UNI e comunque inadeguate ai fini della sicurezza.

Eppure, grazie al patteggiamento accettato dal pm Antonio Bartolozzi, ai due imputati sono stati dati 8 mesi con la condizionale. Quando nel corso dell’udienza ha illustrato i termini del patteggiamento per i due imputati, Graziella ha (giustamente) dato in escandescenza. (fonte, Il resto del Carlino)

Andrea aveva 23 anni, tutti i giorni faceva 80 km per recarsi al lavoro presso la ditta Asoplast di Ortezzano in provincia di Ascoli Piceno.
Quel fatidico 20 giugno 2006, Andrea si alza alle 4 del mattino per essere sul posto di lavoro alle 5. Alle 6,10 la pressa si ferma come una grande bocca spalancata, Andrea d'istinto si sporge e guarda dentro, ma all'improvviso la macchina si rimette in moto lasciandogli solo il tempo di lanciare un urlo lancinante, e il cranio di Andrea viene schiacciato da quella maledetta pressa.....
Graziella Marota dal sito della provincia di Ascoli Piceno



La madre di Andrea ha scritto a Grillo che ha pubblicato la sua lettera denunciando la sentenza scandalo.
Quel che nel blog di Grillo non si dice è che Graziella Marota si è candidata come indipendente nella Sinistra Arcobaleno alle ultime politiche.
Insomma non proprio una mamma qualunque (il che non intasca di un atomo la legittimità del dolore, della rabbia, né l'azione politica intrapresa dalla donna oltre quella giudiziaria).

Mi sarebbe però piaciuto leggere cristallinamente nel sito di Grillo che la signora non è una mamma qualunque ma una politica in erba.

Il punto è un altro però.
Se il governo di centrosinistra non ha saputo garantire niente, nemmeno una tutela dal lavoro insicuro e se di questa notizia non c'è stata rilevanza nazionale ma solo locale (solo Grillo ne ha dato la giusta enfasi) cosa succederà ora che s'insedia un governo padronale, confindustriale? Chi parlerà di queste morti bianche ora che il presidente del consiglio vende anche giornali, dischi, film libri, ha banche, assicurazioni, è il primo a vendere pubblicità in Italia?

Chi ha votato PdL ha già detto e nemmeno tanto indirettamente alla madre di Andrea: tuo figlio è morto? chissenefrega!

A noi invece ce ne frega.

Grazziella Marota ha ricevuto dal Presidente della Giunta regionale Gian Mario Spacca la “Stella al merito del lavoro alla memoria” con il titolo di “Maestro del Lavoro", onorificenza concessa dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un'occasione per i politici, presenti in massa, di ricostruirsi una verginità pro sicurezza sul lavoro. Uno sciacallaggio al quale, suo malgrado, la mamma di Andrea non ha potuto sottrarsi (ma che non leniscono lo smacco di aver ricevuto dall'Inail un risarcimento di 16.000 euro...). Una borsa di studio alla memoria di Andrea è stata istituita per sensibilizzare gli studenti della sicurezza sul lavoro (ma perché non si sensibilizzano le industrie con una legge che al primo incidete fa chiudere la fabbrica, per sempre e mette in galera, senza processo, i padroni della medesima?).

Ciao Andrea... almeno non devi vedere più lo sfascio che sta per travolgere, speriamo definitivamente, questo paese di fascisti di merda.

Bollettino ufficiale sullo stato del mio umore n° 13

16 aprile 2008

Ho paura della morte perchè mi dispiace che tutto finisca per sempre, ma la favola dell'inferno e del paradiso mi fa sorridere (Marisa Sannia)


E mentre restavamo tutti a bocca aperta per i risultati delle elezioni politiche, in silenzio, sommessamente, se ne andava Marisa Sannia per i più mitica cantante degli anni sessanta, interprete di Don Backy, Sergio Endrigo (che l'ha scoperta) e Lucio Battisti in realtà artista poliedrica, attrice di teatro (Memorie di Adriano con Albertazzi e di cinema (Aiutami a sognare di Pupi Avati, 1981, senza mai dimenticare le sue origini di cantante, ultimamente dedicata alla riscoperta della poesia della Sardegna, la sua terra di nascita.

Marisa ci lascia all'età di 61 per una grave e improvvisa malattia un esempio di discrezione leggerezza e classe cui tutti dovremmo guardare in questi tempi volgari di televisione urlata e dallo schieramento facile e omologante.

Un'artista da ricordare o riscoprire.









Negli ultimi tre anni della sua vita Marisa Sannia ha dedicato tutto il suo tempo allo studio di Federico Garcia Lorca, alla poesia e alla metrica del grande autore andaluso lasciando in eredità ai suoi molti estimatori un toccante lavoro di canzoni originali cantate in spagnolo che saranno pubblicate in “Rosa de papel”, un album postumo (curato graficamente dalla stessa cantante fino all'ultimo dettaglio), che costituirà il suo testamento artistico e che ha anche avuto un'anteprima la scorsa estate al Malborghetto Roma Festival.
dall'articolo de l'Unità

Dopo i primi anni di successo aveva smesso di fare serate e concerti: "A un certo punto non ho piu' resistito e ho detto basta", aveva spiegato in un'intervista del 1973 al settimanale "Gente" pubblicata sul suo sito, che adesso suona quasi come un testamento, spiegando che l'atteggiamento del pubblico ("volevano toccarmi, mi sembrava di essere Santa Rita o la statua della Madonna") la irritava. Cosi' come detestava chiunque volesse intromettersi nella sua vita privata: "Non ho mai sacrificato niente al mio pubblico", diceva, "e non lo faro' mai". Cosi' quando le suggerirono di sposarsi in chiesa perche' "il suo pubblico" non avrebbe gradito le nozze soltanto in municipio, Marisa Sannia spiego' di non essere credente o interessata a questioni come l'esistenza di Dio o l'immortalita' dell'anima: "Ognuno vive come crede, segue la religione che gli piace". "Io sono fatta cosi' e chi mi vuol bene deve accettarmi come sono", diceva.
dal sito AGI

15 aprile 2008

Il 15 aprile 1967


...A Roma, nella sua casa ai Parioli, moriva Antonio De Curtis, in arte Totò.
Già un anno fa ne ricordavo la morte, con un post spartano (ancora non avevo scoperto come postare i video...).



Quest'anno voglio ricordarlo con uno dei due corti pasoliniani, La terra vista dalla Luna che mi sembra perfetto in questo giorno di disastri elettorali, dove mi sembra davvero di essere sulla Luna e guardare da lassù questa Terra che capisco sempre dimeno...

Totò, ci manchi!!!!

Il giorno dopo la catastrofe



Non ho mai detto in vita mia "ve lo avevo detto io" prima d'ora, ma stavolta sono stato davvero una Cassandra, anche se, come ricorda Rossanda ieri sul manifesto, le Cassandre fanno una brutta fine.
La sensazione che ho è che si abbia tutti cazzeggiato con cose più grandi di noi e come risultato per la prima volta dal 1948 il Parlamento italiano non ha alcuna rappresentanza di sinistra, a sinistra.

Non mi pento del voto che ho dato, a sinistra critica alla camera a e quella arcobaleno al senato.
Il mio voto non è stato un azzardo, in tutta coscienza non potevo votare Pd perché Veltroni crede che non ci sia più lotta di classe mentre in realtà è venuta amancare solamente la rappresentanza comunista alle camere (il socialismo è stato trucidato da Craxi e Boselli non è tanto diverso da Bettino eticamente se per garantismo (sic!) ha offerto un seggio a Mastella).

Non penso come Boselli che la responsabilità della scomparsa delle sinistre dalle camere sia anche di Veltroni.
Se la sinistra non ha preso abbastanza voti è solo colpa dei suoi partiti nemmeno degli elettori che si sono astenuti, quel 4% di voti mancanti non avrebbe risolto il disastro.

Lo spostamento a destra dei voti è il segno che almeno il 65% dell'Italia non si vergogna più di essere razzista, classista, qualunquista, schiavista, imperialista, maschilista, sciovinista e omofoba. E il peggio è che almeno la metà di chi ha votato a destra ignora di essere fascista perché non sa cosa sia il fascismo, mentre l'altra metà gongola come starà gongolando Ciarrapico.

Fanno bene Bertinotti e Boselli a dimettersi. E non perché sono "vecchi", magari Rossanda decidesse di mettersi alla guida di una confederazione delle sinistre unite ma perché la loro politica ha portato a questo disastro.

Il mio impegno di cittadino senza più rappresentanza in parlamento (perché il PD non potrà mai rappresentarmi finché loschi figuri come Paola Binetti, me potrei fare tanti altri nomi, non vengono sfiduciati, smentiti, zittiti e cacciati dal partito in malo modo) è quello di tornare a militare direttamente in quel che rimane della sinistra.

Il nostro impegno di cittadini senza una vera rappresentanza democratica di sinistra è quella di rimboccarci le maniche, non già per aiutare il paese ad uscire da una crisi politica inimmaginabile solo 20 anni fa, ma per ricostruire dalle macerie di questa sinistra un'opposizione che sembra ripartire esattamente là dove si trovò Togliatti una volta escluso dal governo di De Gasperi.
Solo che il partito (i partiti) non sono numericamente più quelli di allora, ripartiamo da un misero 4%.

I prossimi mesi ci diranno se la nostra militanza di cittadini servirà solo a frenare l'inevitabile catastrofe o se porterà davvero all'agognata ma ancora lontanissima Rinascita.
Io ve l'avevo detto.
E, per la prima volta, mi rode di avere avuto ragione.

14 aprile 2008

ancora Rossanda...

Ecco un altro articolo di Rossanda che credo dobbiate leggere tutti... Come sempre, dal manifesto..., di oggi.
E' già domani
Rossana Rossanda

Scrivere oggi domenica 13 aprile, a meno di 24 ore dai risultati delle elezioni, è scrivere non al buio ma in una fitta penombra. Non al buio perché le possibilità non sono molte, arriveranno in testa Veltroni o Berlusconi, e la sinistra sulla quale la maggioranza di noi punta misurerà la sua consistenza. Ma ci sarà una grande differenza se Berlusconi vince solidamente, Veltroni non ce la fa e la sinistra non raggiunge il fatidico 8 per cento che questa legge elettorale impone, oppure se Veltroni ce la fa e la Sinistra Arcobaleno si consolida su quella frontiera. E un'altra negativa differenza se Veltroni ce la facesse ma la sinistra restasse esclusa dalla scena istituzionale.
Nel primo caso vorrebbe dire che la destra più rozza dell'Europa occidentale s'è impadronita della mente degli italiani, facendo del nostro un paese egoista e miope, nel quale ognuno si è chiuso in quel che crede il suo interesse più immediato mentre d'una democrazia decente più nulla importa; nel secondo caso, se Veltroni la spunta con infinitamente meno mezzi del suo avversario, significa che l'Italia si attesta sugli spalti d'una democrazia moderata ma ancora praticabile e che una sinistra, minoritaria ma ragionata e consistente, può interpellare e incalzare. Se invece questa sinistra scomparisse dalla scena, vorrebbe dire che l'americanizzazione è andata così avanti, che qualsiasi spinta avanzata all'interno di una egemonia liberista sarebbe ridotta al silenzio e alla marginalità.
L'arretramento è già stato grave e la discesa dura da rimontare. Quanto resta del paese che era stato il più interessante e inconcluso d'Europa fino a quasi quaranta anni fa? Per questo ci siamo battuti contro l'astensionismo che oggi significa non l'ennesima protesta ma la prova d'una immaturità e rancorosa impotenza, dalle quali qualsiasi società non solo non procede ma rischia guasti insanabili.
Non so se ce li saremmo meritati. Certo nessuno potrebbe dichiararsi innocente. Il fatto stesso che siamo oggi a questo rischio, per la prima volta dal 1945, ci costringe a chiederci perché siamo arrivati a tanto e verificare i nostri strumenti, le storie e gli obiettivi. E' un'urgenza, qualunque sia il risultato di queste elezioni; anche se si dovesse verificare l'ipotesi più favorevole. Resterebbe comunque che quasi metà degli italiani guarda a una destra senza più remore, neanche elementarmente antifasciste, e che a una generosa conflittualità sociale s'è sostituito in gran parte dell'elettorato, in forme diverse, un modello di ineguaglianze e marginalizzioni, giudicato inevitabile. Siamo già oltre la società dei due terzi che qualche decennio fa prevedeva - e non ci pareva possibile - il socialdemocratico tedesco Peter Glotz.
Per questo alcuni di noi chiamano a confrontarsi subito con quella parte del paese che ha votato e fatto votare per la Sinistra Arcobaleno, in modo da mettere in atto subito un processo più allargato della somma delle sue sigle. Essa ha raccolto non una delega ma un voto che punta a qualcosa di più e che manca. E' fin evidente per quelle sensibilità diffuse che non stanno in una organizzazione, come la coscienza sempre più pressante del problema ecologico, che sta stretta in un partito per quanto valoroso, e li interpella tutti, e in tutta Europa. E' fin ovvio, ma più complicato, per le culture femministe, che non per caso non si danno una struttura di partito, e che dai partiti vengono regolarmente lusingate e offese; esse attengono a un conflitto millenario irrisolto, che si è affacciato con prepotenza a molte donne e inquieta l'altro sesso. E attraversano tutte le sigle e nessuna. Per ultimo non è altrettanto ovvia l'inquietudine e irresolutezza che attraversa tutto un popolo attorno al movimento operaio, che ha conosciuto vicende gloriose e scontri terribili e - salvo il rispetto per la corrente di Mussi, e i partiti di Diliberto e Bertinotti - non si riconosce nelle sigle di parte del Pci, del Pdci e di Rifondazione comunista. Che ci si appelli a una «identità» inequivoca per opporsi alla deriva dell'ex Pci, si può capire, ma è una posizione difensiva che non riesce a dar conto né della propria debolezza né delle innovazioni fin convulse impresse dal capitalismo diventato ormai il solo modo di produzione mondiale. E più che mai proteiforme e come sempre portatore di quella negazione assoluta dell'umano che è la guerra.
Questo è un problema per molti. Prendo ancora una volta un caso che conosco bene - il mio. Io sono una vecchia comunista, convinta della validità e dei limiti di quella critica del modo di produzione che è il marxismo. Da quando sono stata esclusa dal Pci e dopo la fine del Pdup ho sempre votato per una sinistra alternativa ma non ho mai aderito a una delle sue organizzazioni. Non per essermi convertita, ma al contrario per aver radicalizzato la mia riflessione sul conflitto sociale. E insieme per essere stata interpellata drasticamente come donna dal femminismo, e come essere (per quanto può) pensante dall'ecologia - due dimensioni delle quali la prima non stava nella mia formazione di emancipata, e la seconda non era ancora visibile sul volto del pianeta. Come non intrecciare queste tematiche nella sinistra alternativa che si auspica? Diciamo la verità, ora come ora al di là di qualche benintenzionato riconoscimento, ognuna di queste culture esclude l'altra dal proprio giardino.
Non si tratta di cattive volontà, penso, ma di paradigmi diversi che non si sono incrociati, salvo - e sembra assurdo - nella vita concreta di ciascuna e ciascuno: questa sì li ha incontrati, o vi è inciampata. La questione dei sessi, quella dell'ecosistema, e anche il dolore - come chiamarlo altrimenti - della lunga vicenda e poi sconfitta comunista. Da quando esiste ho votato Rifondazione, l'ho detto, ho stima per molti dei compagni che vi militano, ma non sono mai stata una di loro, perché neanche Rc, nella sua strada talvolta a zig zag, esprime tutte le urgenze «politiche» che il mondo mi scaraventa addosso. Né mi contenterebbero agevoli sommatorie; a fasi differenti e differenti paradigmi politici e culturali - i due piani non sono separabili - o fa fronte una rielaborazione che li assume e ne rompe la separatezza, o non c'è formula in grado di avere un reale impatto.
So bene che non sarà un lavoro facile, è un travaglio - come ogni volta che si cerca di imprimere una svolta dall'interno della ricchezza del vivente, senza tentare scorciatoie. Elaborazione è cosa diversa da una tesi proposta ai più da un gruppo o qualcuno di illuminato, ed è anche diversa dal suo reciproco, cioè un contenitore di voci che non si parlano. Di questa seconda cosa è diventato un esempio preclaro, spero di non offendere nessuno, il manifesto - non solo per un vizio ma anche per una virtù, non precludersi di essere una sonda nelle diversità che esplodevano dalla crisi dei comunismi (e non soltanto dall'89). Non nell'averle troppo sondate sta la debolezza nostra che, spero di nuovo di non offendere nessuno, è innegabile.
Per questo bisogna cominciare a confrontare tesi e ipotesi. Tenendo come obiettivo un fare, un intervento - anche se ogni tanto sarà un semilavorato - contro la tendenza alla catastrofe che si è riaffacciata. Vorrei non essere fraintesa né esprimermi in modo ingeneroso verso chi ha tirato in tempi difficili minoritarissime carrette. Dico soltanto, e non sommessamente, che stanchezze e depressioni o autogiustificazioni sono comprensibilissime, umanissime, eccetera, ma non è davvero il caso di proporre alla gente i risultati di incontri preliminari a porte chiuse, ciascun gruppo per sé, intento a partorire gruppi dirigenti divisi e paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Come la maionese impazzita, la sinistra non si coagulerà senza uno o più tuorli freschi. E molto olio di gomito.
So che, simile a una Cassandra - e le Cassandre, ahimé, finiscono male - sto scrivendo da un pezzo che non abbiamo molto tempo davanti a noi. Ma qualcuno mi dimostri che non siamo in affanno e ritirata. Ne vogliamo derivare qualche insegnamento? Vogliamo smettere di nobilmente miagolare sulla crisi della politica altrui e provarci nello sperimentarne noi forme diverse? Affrontando un percorso sicuramente accidentato ma tendendo almeno a sedimentare un corpo di analisi e progetti e azioni condivisi? Condivisi e non precludenti? Portandovi ogni esperienza, collettiva o personale, compiuta o in progress, pur che sia disposta a guardarsi in faccia ed esporsi. Partiti, sindacati, movimenti, culture, singoli che abbiano voglia, anzi bisogno, di parlarsi e ascoltarsi. Non c'è nessuno che non porti su di sé qualche livido, che non conosca l'amarezza di essere stato battuto. E magari qualche risentimento per ingiustizie patite. Ma francamente che cosa importa rispetto alle dimensioni dell'urgenza che ci sta davanti?
Quel che ci ha fatto mettere nell'urna in queste ore la stessa scheda, e senza soverchie illusioni semmai ne abbiamo avute, è che non abbiamo deposto le armi (della critica, tranquilli, sono una pacifista). Vadano in pace coloro che dichiarano la guerra finita. Saranno svegliati fin troppo presto.

La legge sul'aborto

Un articolo del manifesto per ricordare (o scoprire) la storia del paese che ha portato alla 194.



Con l'aborto andò così E il manifesto disse no
Il sì del Senato arriva appena nove giorni dopo l'assassinio di Aldo Moro. Con lo scambio di voti e astensioni tra Pci e Dc si consuma il massacro di una legge. Esplode la rabbia delle donne
Eleonora Martini

«Ci sono leggi che segnano più di altre o in modo più immediato la vita quotidiana, che ne cambiano per così dire la qualità. La legge che ieri sera il Senato ha definitivamente approvato, con 160 voti contro 148, è certamente una di queste».
Il 19 maggio 1978 Miriam Mafai annuncia così dalla prima pagina de La Repubblica il varo definitivo della legge 194 con la quale l'Italia legalizza l'aborto. Il Corriere della Sera titola invece: «Legge necessaria, scelta dolorosa». Con il sì di Palazzo Madama si mette fine - così almeno sembrava all'epoca - ad anni di battaglie e scontri politici e culturali. Un clima che negli ultimi tempi è diventato decisamente nocivo alla via del «compromesso storico» su cui si sono avviati insieme i democristiani morotei e i comunisti berlingueriani. La situazione poi precipita quando le Br rapiscono e uccidono, il 9 maggio, il presidente della Dc Aldo Moro. Va da sé che quando il testo di legge arriva al Senato, a soli nove giorni da quel tragico evento, il voto scivola via senza grandi dibattiti ed emozioni.
Ma la vera partita si è già giocata il 14 aprile alla Camera, con una lunga e sofferta seduta. «Pci e Dc si scambiano voti e astensioni e concordano il massacro della legge. La ritirata radicale», è il titolo d'apertura del manifesto, il giorno dopo. Sono passati esattamente trent'anni e vale la pena oggi ripercorrere - a grandi linee - quei giorni, per interrogarsi su cosa abbia rappresentato davvero quel voto del '78 e su come si sia giunti alla formulazione di una legge entrata talmente nella nostra consuetudine da essere semplicemente chiamata «la 194».
Mentre già dal 1973 in Parlamento venivano presentate le prime proposte di legge in materia, come quella del deputato socialista Loris Fortuna, il movimento femminista superando divisioni e lacerazioni interne si batte invece non per la legalizzazione dell'aborto ma per la sua depenalizzazione. Per una forma cioè che permetta di considerare l'intervento abortivo al pari di ogni altra cura medica da assicurare a chi ne abbia bisogno. Poi, nel '75, fanno particolare scalpore gli arresti del segretario radicale Gianfranco Spadaccia, accusato di aver organizzato aborti clandestini in una clinica di Firenze, e delle militanti Adele Faccio e Emma Bonino, che si autodenunciano. E mentre dalle colonne del Corriere della Sera Pier Paolo Pasolini si dichiara contrario moralmente all'aborto, l'Espresso, insieme alla sinistra extraparlamentare, intraprende una campagna per un referendum abrogativo. Ma la vera novità arriva, sempre nel '75, con una sentenza della Corte Costituzionale che dichiara illegittimo punire l'aborto quando sia in pericolo la salute della donna e invita l'esecutivo a legiferare partendo dal principio che «non si può dare al concepito una prevalenza totale ed assoluta» rispetto al corpo della donna.
Si arriva così al 14 aprile 1978, quando la Camera mette ai voti il testo della 194. La seduta dura 36 ore ininterrotte a causa dell'ostruzionismo dei Radicali, con i parlamentari costretti a passare la notte in Aula, "bivaccando" tra i banchi, come raccontano le cronache dell'epoca. A sbloccare la situazione ci pensa il presidente Pietro Ingrao che convoca nel suo ufficio una riunione con i capigruppo e trova l'accordo con i Radicali: fine dell'ostruzionismo e in cambio, al referendum sul finanziamento pubblico ai partiti previsto per giugno, si aggiungerà un quesito di abrogazione della legge Reale sulle armi. La 194 passa così con 308 voti favorevoli: quelli del Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e di un drappello di democristiani. Votano contro 275 deputati: quasi tutta la Dc, i Radicali, l'Msi, il Pdup-Dp.
Il testo votato è gravemente peggiorativo di quello originario, messo a punto fin dal gennaio '77 da una commissione parlamentare mista e trasversale che aveva ricevuto il compito di trovare una felice sintesi di tutte le proposte di legge finora presentate. Allora, la legge era stata approvata da quegli stessi scranni anche con i voti dell'estrema sinistra, ma poi era stata bocciata in Senato. In un anno però molto è cambiato, soprattutto negli ultimi mesi: il 16 marzo le Br sequestrano Aldo Moro e uccidono i cinque uomini della sua scorta. Quella mattina alla Camera era previsto il voto di fiducia sul V governo Andreotti, dimessosi l'11 marzo perché il Pci aveva ritirato l'appoggio esterno e chiedeva di entrare nell'esecutivo. Il 9 maggio, dopo 55 giorni che aprono un profondo dibattito tra gli italiani, viene rinvenuto in via Caetani il cadavere di Moro. Il 16 maggio il governo monocolore di Andreotti riottiene la fiducia con il voto di comunisti e socialisti. Anche l'approvazione definitiva della 194 in Senato suggella per certi versi una ritrovata "solidarietà nazionale".
La legge però finisce per scontentare un po' tutti. La Dc, accettando di ritirare ogni clausola che caratterizzasse l'aborto come crimine, incorre nelle ire del Vaticano. E le donne dell'Udi «gridano al parlamento la loro rabbia per il massacro del testo originale», come scrive il manifesto. Due in particolare gli articoli contestati, il 5 e il 12, emendati in senso peggiorativo dalla Dc. Il primo prevede che il medico o il personale del consultorio coinvolga nei colloqui preliminari il padre del concepito, «ove la donna lo consenta». Il secondo prevede una procedura più restrittiva per le minorenni e innalza a 18 anni il limite di età per l'autodeterminazione (nel testo originale era di 16). Altrettanto osteggiato è l'articolo 9 sull'obiezione di coscienza pensato per coloro che esercitando già la professione sanitaria potevano sentirsi costretti a «subire» una norma contraria alla propria morale.
A distanza di trent'anni, stravolto lo scenario politico e sociale, cambiano i personaggi, si ridisegnano ruoli e schieramenti, ma il corpo della donna rimane il terreno preferito su cui giocare tutt'altre partite.

Eleonora Martini

Miriam Mafai mi ha risposto.

Ho ricevuto la sua lettera venerdì sera.



Caro Alessandro,

mi scuso del ritardo involontario con cui rispondo alla sua lettera. Ci tengo comunque a precisare che io non difendo le idee di Ferrara contro le quali mi sono espressa ripetutamente sia con miei articoli sia con miei interventi dovunque mi sia stato possibile, ma difendo il diritto di chiunque ad esprimerle e sostenerle . E’ un puro artificio logico il suo, quando stabilisce una equivalenza tra la posizione di Ferrara e quella di coloro che sostengono la legittimità/opportunità dei campi di sterminio (contro gli ebrei, o gli omosessuali o gli zingari o gli avversari politici). Sono convinta che anche nella polemica sia necessario conquistare e mantenere il senso della misura. E se Ferrara non lo fa , se egli non conosce il senso della misura e il rispetto dell’avversario, questo non legittima me a fare altrettanto. Nessuno in democrazia può impedire a Ferrara (o al Papa…) di esprimere la sua opposizione all’aborto. Ma nessuno, nemmeno Ferrara, può indicarmi come un’assassina, come una seguace dell’eugenetica di impronta nazista, se io difendo il diritto delle donne di decidere se accettare o no la nascita di un figlio che risulti affetto da gravissime malformazioni.

Molto cordialmente.

Miriam Mafai



Ancora non Le ho risposto...

13 aprile 2008

il dado sta per essere tratto...



Sarà un'apnea di tre giorni, fino a martedì sera (notte) quando avremo anche i risultati delle amministrative.
Come voterà il Paese?
Si ripeterà la delusione di due anni fa che ha visto Berlusconi confermato primo uomo politico eletto e il suo partito il primo partito d'Italia?
Sono domande retoriche, la risposta è ovviamente positiva.

Questo paese ha il fascismo nel sangue, e non c'è nulla da fare per cambiare le cose, se non lo sterminio degli italiani, quegli italiani perfettamente descritti da Pasolini per bocca di Orson Welles nella sequenza famosa, e da me citata innumerevoli volte, de La ricotta.



E' questa la ragione delle mie parole dure, violente, non pacifiche, ma un Paese che (per esempio) non difende le radici che lo hanno portato a nascere, scendendo in piazza a milioni, in segno di protesta contro le porcate ecolaliche di Dell'Utri, che vuole riscrivere i libri di storia, ridimensionando l'importanza della Resistenza, perché distorta dalla sinistra è un paese morto, un paese di morti, civilmente, politicamente, umanamente.

La Storia per gli Italiani non esiste ed è una questione di punti di vista, di schieramenti, di interpretazioni di parte.

I risultati di queste elezioni lo dimostreranno.

1 Scomparsa della sinistra dalle due camere, quella che si sfalda a sinistra del Prc (confluito insieme ai Verdi e al PdCI nella Sinistra arcobaleno) in tre piccoli porcell.. partitin (Sinistra critica , Partito Comunista dei Lavoratori e
Partito di Alternativa comunista ), che continuano a praticare dei distinguo deliranti, ignorando l'emergenza politica ed economica di questo paese baloccandosi con dei compitini estivi da campeggio comunista anni 50, che non corrispondono a nessun concreto distinguo nella popolazione, della gente, né tanto meno del Paese (che miseria vedere il trotzkismo appiattito in posizioni così anacronisticamente arroccate sulla dittatura del proletariato come quelle di Alternativa comunista che dovrebbe essere il mio partito di riferimento, dato che sono trotzkista, ma i trotzkisti italiani sono fermi, come terminologia e capacità di analisi politica e antropologica della società, a prima dell'invenzione del cinematografo... ben prima del trotzkismo stesso...).

E intanto il fascismo imperversa, il berlusconismo dilaga.

2) Tenuta leggera della Sinistra Arcobaleno (che cosa avrebbero potuto fare tutti insieme i 5 partiti di sinistra...)

3) Una performance del Partito democratico molto al di sotto delle previsioni e

4)una vittoria, stavolta straripante, del partito di Berlusconi.

Una parità come alle scorse elezioni sembra già un'irraggiungibile vittoria.

Io non amo il ruolo di Cassandra ma so che le cose andranno così.

A sinistra troppi i giovani (e non) incoscienti, idioti (apolitici, apartitici, A STRONZIIII) che non voteranno, mentre a destra stavolta voteranno compatti e sai che consolazione che "tanto a destra c'è l'UDC e la Santanchè (quanto odio quell'articolo femminile cosi sessista...) che toglieranno voti al PdL, loro avranno seggi alle camere mentre la sinistra scomparirà.

E mercoledì, quando riprenderemo tutti a respirare un'aria ancora più mefitica di questa, non so se guarderò con maggior disprezzo chi ha votato Berlusconi o chi non è andato a votare.

So solo che dopo, come al solito, i cocci toccherà rimetterli insieme a chi crede ancora alla cosa pubblica, a quei pochi che non seguono l'unico vero credo italiano quello dell'io sono io e voi non contate un cazzo che ci ha sempre distinto in quanto Italiani sin dai tempi di Dante....

E ora vado a fare il mio dovere e vado a votare e voterò, contento di farlo, fiero di essermi guadagnato, dopodomani, il diritto di piangere per i risultati elettorali.

Ma vi avverto, voi incoscienti che non voterete, voi pazzi che resterete in casa pensando che basti non partecipare per non essere coinvolti, guai a voi se vi sento proferire una sillaba sola di di protesta, non votando avete perso il diritto di lamentarvi almeno fino alle prossime elezioni.

Quindi zitte, zitti per dio, o per la prima volta in vita mia alzerò le mani contro qualcuno!

12 aprile 2008

giochini pre-elettorali

Un altro sito sul quale posizionarsi politicamente in base a un semplice questionario. Questa volta tocca al La repubblica. E' tutto molto più carino e tondo che nel sito precedente ma si sa Repubblica è quel che è...
Ecco di nuovo il mio collocamento...





E il vostro?

8 aprile 2008

Stamattina, mi son alzato...

...con ancora in testa le belle risposte di Flavia D'Angeli di Sinistra Critica sentite ieri sera al tg 2 intervistata da dei tromboni vecchio, borghesi, ignoranti, giurassici.

Non posso parlarne come vorrei, in questo momento.

Intanto eccovi in anteprima la mia dichiarazione di voto.



Ora la domanda è alla Camera ce la faranno a superare la soglia di sbarramento al 4%?
e al Senato quella dell'8%???

5 aprile 2008

Firma per Liberadonna

Ecco una petizione online da firmare subito, adesso!
Caro Veltroni, caro Bertinotti, cari dirigenti del centro-sinistra tutti, ora basta! L'offensiva clericale contro le donne – spesso vera e propria crociata bigotta - ha raggiunto livelli intollerabili. Ma egualmente intollerabile appare la mancanza di reazione dello schieramento politico di centro-sinistra, che troppo spesso è addirittura condiscendenza. Con l'oscena proposta di moratoria dell'aborto, che tratta le donne da assassine e boia, e la recente ingiunzione a rianimare i feti ultraprematuri anche contro la volontà della madre (malgrado la quasi certezza di menomazioni gravissime), i corpi delle donne sono tornati ad essere “cose”, terreno di scontro per il fanatismo religioso, oggetti sui quali esercitare potere. Lo scorso 24 novembre centomila donne – completamente autorganizzate – hanno riempito le strade di Roma per denunciare la violenza sulle donne di una cultura patriarcale dura a morire. Queste aggressioni clericali e bigotte sono le ultime e più subdole forme della stessa violenza, mascherate dietro l’arroganza ipocrita di “difendere la vita”. Perciò non basta più, cari dirigenti del centro-sinistra, limitarsi a dire che la legge 194 non si tocca: essa è già nei fatti messa in discussione. Pretendiamo da voi una presa di posizione chiara e inequivocabile, che condanni senza mezzi termini tutti i tentativi – da qualunque pulpito provengano – di mettere a rischio l'autodeterminazione delle donne, faticosamente conquistata: il nostro diritto a dire la prima e l’ultima parola sul nostro corpo e sulle nostre gravidanze. Esigiamo perciò che i vostri programmi (per essere anche nostri) siano espliciti: se di una revisione ha bisogno la 194 è quella di eliminare l'obiezione di coscienza, che sempre più spesso impedisce nei fatti di esercitare il nostro diritto; va resa immediatamente disponibile in tutta Italia la pillola abortiva (RU 486), perché a un dramma non debba aggiungersi una ormai evitabile sofferenza; va reso semplice e veloce l'accesso alla pillola del giorno dopo, insieme a serie campagne di contraccezione fin dalle scuole medie; va introdotto l'insegnamento dell'educazione sessuale fin dalle elementari; vanno realizzati programmi culturali e sociali di sostegno alle donne immigrate, e rafforzate le norme e i servizi a tutela della maternità (nel quadro di una politica capace di sradicare la piaga della precarietà del lavoro). Questi sono per noi valori non negoziabili, sui quali non siamo più disposte a compromessi.

PRIME FIRMATARIE: Simona Argentieri, Natalia Aspesi, Adriana Cavarero, Cristina Comencini, Isabella Ferrari, Sabina Guzzanti, Margherita Hack, Fiorella Mannoia, Dacia Maraini, Valeria Parrella, Lidia Ravera, Rossana Rossanda, Elisabetta Visalberghi


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