Leggo l’intervista a Luttazzi su Alias di ieri, quando incappo in una domanda che mi fa sobbalzare dalla sedia: “(…)secondo te non sarebbe produttivo creare dei laboratori di realizzazione cinematografica per i giovani in modo da apprendere il linguaggio e forse così avere in mano gli strumenti critici onde valutare con la propria testa le tante illusioni di oggi vendute a loro con programmi del tipo “Grande fratello”?
La preoccupazione è di quelle giuste. Bisogna educare i giovani (io direi TUTTI gli spettatori, anche gli adulti) ad un approccio critico ai media audio visuali. Io, nel mio piccolo, lo faccio da 15 anni, nelle scuole medie, superiori e inferiori, di Roma. Con la mia associazione culturale abbiamo contribuito alla progettazione e alla realizzazione del primo Piano Nazionale per la ….
E dalla domanda posta capisco come ancora oggi ci sia bisogno più che mai di una “educazione all’immagine” per tutti i cittadini e le cittadine.
L’assunto infatti che “facendo cinema” si impari il linguaggio è tutto da dimostrare. Intanto non si può fare cinema. Per “fare cinema “ci vogliono i soldi, nelle scuole si fanno audiovisivi, usando attrezzature leggere, solo nei migliori dei casi semi-professionali, altrimenti ci si adatta a lavorare con videocamere che costano sui 300 euro. Spesso così si illude i ragazzi di stia “facendo del cinema” mentre in realtà si soddisfano le velleità registiche di qualche adulto, professore della scuola o “esperto esterno”, che manovra lui le attrezzature, perché, si sa, “costano”. Chi produce audiovisivi nella scuola, anche la mi associazione lo fa, non ha lo scopo di insegnare il linguaggio ai ragazzi (o almeno non dovrebbe), ma quello di fornire loro un mezzo espressivo. Compito fondamentale in una scuola che normalmente fa esprimere gli studenti solo attraverso compiti in classe e interrogazioni, ma che poco ha a che fare con l’apprendere il linguaggio.
Siamo in molti a insegnare educazione ai media nelle scuole. Non tutti seguendo lo stesso metodo. Ci sono molti che sono convinti che facendo fare dei video si insegna ai ragazzi il linguaggio. Ma nessuno si sogna di affermare che facendo fare dei film e quindi “imparando il linguaggio”, si trasforma i ragazzi in spettatori critici.
Per imparare a vedere criticamente cinema, tv e tutti i media di derivazione cinematografica, non ultimi i videogiochi, impararne il linguaggio non basta. Sarebbe come dire che per fare la lettura critica della Divina Commedia di Dante i ragazzi devono imparare a scrivere poesie.
La lettura critica la si fa mettendo in campo molte competenze. Anche quelle del linguaggio, ma non solo. Sono chiamate in causa competenze cultuali, storiche, sociali, antropologiche, sociali, psicologiche, di critica letteraria, di narratologia, di letteratura, di storia, insomma, in una parola sola, di CULTURA. Io ai miei ragazzi insegno come “leggere” criticamente un tg, a interrogarsi sui rapporti tra storia e cinema, a come leggere e decostruire i luoghi comuni delle fiction che vedono (dai Cesaroni ai Liceali) a come individuare il sessismo degli spot pubblicitari. Studiare il linguaggio (inteso come complessi fattori che intervengono nella narrazione e dunque non tanto le inquadrature ma i rapporti tra immagine e suono, il montaggio, i complessi intrecci tra “tempo della storia” e “tempo del racconto”) serve solo nella misura in cui il linguaggio contribuisce alla “formazione del senso”, uniformandosi su una semplificazione, su un cliché, un luogo comune, uno stereotipo, un pregiudizio.
Apprezzo la preoccupazione di chi ha fatto questa domanda ma la risposta non può essere più sbagliata, più semplicistica di così.
E la risposta di Luttazzi è ancora peggio. Anche lui intriso di crocianesimo dice che se si ha la passione la si coltiva da sé. Sbagliato. Così facendo rimaniamo tutti spettatori educati dal mercato che tutto ha tranne l’esigenza di formare spettatori critici., se oggi nel mercato proliferano tanti programmi spazzatura è sicuramente anche a causa dell’acriticità del pubblico che guarda dei prodotti che normalmente a scuola non vengono mai presi in considerazione perché ritenuti troppo di basso livello. Così il mercato diffonde pregiudizi e cliché e poi ci si meraviglia se l’Italia è razzista. Voglio dire a Luttazzi che invece le passioni devono essere alimentate, sempre, per non farle spegnere in una scuola (in un mondo) sempre più omologante. Io nel mio piccolo posso testimoniare che i miei studenti migliori sono spesso quelli che vanno male nelle materie ufficiali e che diventare improvvisamente i primi della classe, anche se in una materia non canonica (ma curricolare, io insegno con tanto di voti…) dà loro una sana iniezione di fiducia, che, insomma, vedere le cose in modo critico è un entusiasmo che contagia, basta saperlo suscitare nelle persone cui si insegna.
Testo integrale della lettera appena spedita al manifesto.
Come al solito, se mi rispondono, vi faccio sapere...