24 aprile 2008

Che fine ha fatto Alitalia




Un disastro perfetto con regia bipartisan
Romano Prodi e Silvio Berlusconi hanno pilotato per 14 anni ogni passaggio del declino di Alitalia. Tra velleità di privatizzazione, disegni imprenditoriali fumosi, una successione di manager spesso a digiuno dei fondamentali del trasporto aereo. Una lunga serie di ristrutturazioni che hanno sfasciato la compagnia e chi ci lavora dentro

Due nomi segnano il tracollo della compagnia di bandiera: Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Poi c'è la lunga lista dei comprimari, che comprende la lunga lista di presidenti e amministratori delegati profumatamente pagati per smontare pezzo pezzo un gioiello dell'economia mista.
Sia chiaro: i due personaggi che si sono alternati nel ruolo di primo ministro hanno agito con finalità e strategie differenti. Ma nel gioco delle reciproche correzioni hanno finito per confezionare quello che potrebbe diventare il primo fallimento di un'azienda di stato nella storia di questo paese. Tanto per farsi un'idea, è dal 1998 che si dà per certa la «privatizzazione».
L'unico a.d. capace di presentare un piano industriale degno di questo nome resta ancora oggi Domenico Cempella, architetto dell'alleanza con Klm, che giustificava la trasformazione di Malpensa in hub internazionale. Alla fine degli anni novanta, però, il progetto finì in pezzi grazie a quelli che oggi si dichiarano i primi difensori dell'aeroporto varesino: i «milanesi». Intesi come cittadini e come amministratori. I primi continuarono infatti a preferire Linate, assai più facile da raggiungere (è praticamente «dentro» la città, un po' come Ciampino a Roma). I secondi tardarono a costruire le necessarie infrastrutture di collegamento, tanto che ancora oggi Malpensa è di una scomodità mostruosa per chi deve raggiungere Milano. Sia come sia, gli olandesi - che volevano anche garanzie certe sui tempi della privatizzazione - preferirono pagare 500 milioni (di lire) di penale pur di «liberarsi» di quei pasticcioni degli italiani (padani compresi, of course). Portarono i libri in tribunale di lì a pochi mesi, venendo poi inglobati da Air France. Cempella prese atto del fallimento del suo progetto, nel bel mezzo della più spaventosa crisi del trasporto aereo - successiva all'11 settembre 2001 - dimettendosi.
Di lì in poi la frana divenne inarrestabile. Il centrodestra fa il suo miglior capolavoro nominando l'ex sindaco di Gallarate a presidente della compagnia e Francesco Mengozzi come amministratore delegato. I due sembrano perseguire disegni strategici divergenti. Il primo viene sospettato dai sindacati di voler portare l'azienda vicino al fallimento per favorirne l'acquisto da parte di Volare Web (una compagnia low cost con base proprio a Gallarate e capitali in odor di Lega). Il secondo sposa ben presto la pista francese e raggiunge un accordo con Jean-Cyril Spinetta: ingresso nell'alleanza Sky Team, scambio azionario con i francesi e un posto nel cda per lo stesso Spinetta. Il «piano industriale» che ne viene fuori sembra disegnato apposta - sarà una costante, fino all'ultimo di Maurizio Prato, un anno fa - per venire incontro alle esigenze di espansione di Air France. Il taglio delle rotte è deciso. La scelta è quella di «concentrarsi sulla difesa del mercato interno» per poi riprendere peso sulle rotte internazionali. Peccato che il mercato interno sia in quel momento preda delle low cost (grazie all'assenza di regolamentazione uguale per tutti i vettori, come invece avviene ancora oggi in Francia) e che le tratte intercontinentali siano le uniche a garantire redditività, proprio perché sottratte alla concorrenza sleale. Mengozzi arriva al punto di affidare ad Air France l'esclusiva dei voli verso Parigi da sei città «ricche» come Torino, Bologna, Verona, Venezia, Genova, Trieste e a chiudere le tratte per Los Angeles, Hong Kong, Pechino, Rio de Janeiro, ecc. Inutile dire che a ogni «piano» corrisponde una marea di «esuberi», l'aumento delle ore lavorate, il blocco sostanziale delle retribuzioni.
A Mengozzi succede nel 2004 Marco Zanichelli, considerato in quota An, e prosegue perciò il conflitto con Bonomi. La paralisi - che non implica la rinuncia ad altri tagli del personale - porta alla decisione di dimissionare entrambi e arruolare Giancarlo Cimoli, ex prodiano che si era fatto una fama di «tagliatore di teste» nelle Ferrovie dello stato (senza peraltro migliorarne le prestazioni economiche e industriali). Nel 2005, oltretutto, Alitalia deve caricarsi del peso di Volare Web, disgraziatamente fallita prima di poter «conquistare» la compagnia di bandiera; oltre a dover mantenere un numero abnorme di voli su Malpensa (non più giustificati, da anni, dopo la rottura con Klm). Si scopre poi che soltanto i «costi impropri» derivanti dall'attività sullo scalo varesino valgono i due terzi del «buco» nei bilanci di Alitalia.
Il ritorno di Prodi a palazzo Chigi coincide con la follia finale. Le privatizzazioni sono una parola d'ordine indiscutibile Per Tommaso Padoa Schioppa e Pierluigi Bersani. Si indice perciò una gara d'asta cui vengono inizialmente ammesse cinque «cordate»: Ap Holding (AirOne), Texas Pacific Group, Matlin Paterson, Cdb Management e Aeroflot (insieme a Unicredit). Stranamente manca in candidato principale, Air France, il cui amministratore è stato fino a un attimo prima nel cda e conosce quindi l'azienda come le proprie tasche. I concorrenti si sfilano uno alla volta, per un motivo (la «mancata italianità») o per l'altro (la mancanza di soldi). A quel punto Padoa Schioppa incarica il cda (nel frattempo sostituito ancora una volta, con alla testa Prato) di trovarsi un compratore. Non si era mai visto un azionista così disinteressato a un proprio asset. Ma del resto non si era mai neppure visto un imprenditore - né pubblico né privato - fare spot pubblicitari gratuiti per un concorrente. Padoa Schioppa fa anche questo, dichiarando che «io volo con Easy Jet e mi trovo benissimo». Un modo eccellente di «promuovere» ciò che si sta vendendo...
In ogni caso Alitalia ritrova il suo vecchio amore: Air France (che nel frattempo ha riassorbito anche Klm). L'azienda approva il budget 2008 in cui si parla della necessità di una ricapitalizzazione da 750 milioni, taglio dei voli su Malpensa, aerei da mettere a terra (è un «piano di sopravvivenza», non certo di «rilancio»). Il prezzo offerto dai francesi è davvero minimo: 138,5 milioni. «Meno di un solo bireattore», commenta il giornale Les Echos. Ma va bene lo stesso, visti i debiti e la necessità di investire. In pratica è un regalo. Unici ostacoli: il sì del sindacato e quello di Berlusconi, complice l'imprevista crisi del governo Prodi. Siamo ai giorni nostri. All'epilogo di un disastro ferocemente «bipartisan» in ogni istante della sua storia.

Francesco Piccioni

(dal Manifesto del 23 aprile 2008)

Questo e quello per Alital pari sooonoooooooo

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bello essere
quello che si è anche se si è
poco
pochissimo
niente


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