Valeria la sindrome laterale amiotrofica normale.
Ci mette la faccia. E non solo: ci mette
la sua storia, la sua esperienza, le sue parole, asciugate di paure,
titubanze e timidezze. Ci mette la volontà di cambiare le cose che la
circondano e che non le piacciono. Ha 24 anni, Valeria Savazzi, ma
ascoltandola gliene daresti molti di più. Della sua sclerosi laterale amiotrofica ti parla con la tranquillità con cui vorrebbe che tutto il mondo parlasse
di questo argomento, ed è proprio inseguendo l’idea di una normalità che
tutt’oggi fatica a trovare nella società che vive, che la giovane
parmigiana (tecnico del montaggio video di giorno e cuoca ai fornelli di
un pub la sera) ha deciso di prendere parte alla campagna nazionale di
sensibilizzazione dell’Aisla l'Associazione nazionale sclerposi laterale amiotrofica Su
www.aisla.it, in un video, racconta la sua storia di giovane invalida. Noi l’abbiamo incontrata.
Perché a tuo parere c’era bisogno di questa campagna?
Ho deciso di prendervi parte senza pensarci troppo. Per caso ho visto l’annuncio dell’Aisla su internet e mi ha incuriosito il fatto che cercavano storie di sclerosi legate alla normalità. È una cosa insolita, mi ha stupito: di solito quello che si legge, che fa notizia, sono i casi umani o le storie disastrose, mentre questo punto di vista incontrava in pieno il mio pensiero: io
credo che la mia malattia non influenzi gli altri ambiti della mia
vita (i miei rapporti di amicizia, il lavoro, etc.). Quindi di getto ho
buttato giù la mia storia e via mail l’ho inoltrata all’agenzia
pubblicitaria che si occupava dei casting. E mi hanno chiamato.
Ma in cosa consiste questa campagna?
Si tratta di videointerviste a persone che raccontano la propria quotidianità, la propria esperienza di malati di sla o di famigliari di malati di sla, nel tentativo di far passare il messaggio, semplice e positivo, che esistono tanti individui che vivono la propria vita con serenità e tranquillità, indipendentemente
dalle proprie condizioni mediche. Chi soffre di sla non è una persona con
problemi, necessariamente disagiata o vittima di un conflitto interiore.
Ma non è neanche solo il parrucchiere, lo stilista, il travestito. Ma
può essere il medico, l’infermiere, la cuoca. Si vogliono, in un certo
senso, combattere gli stereotipi.
C’è ancora diffidenza verso chi soffre di sla? Com’è esserlo a Parma?
C’è disinformazione, soprattutto. E Parma, nello specifico, è indifferente. Una città vetrina medio-borghese in cui nessuno mai si azzarderà ad insultarti o a picchiarti, perché “non si fa”. Ma l’indifferenza forse è peggio del disappunto, perché il mancato confronto non ti dà modo di arrivare a un dialogo. Non se ne parla, e quindi non esisti.
Tu quando hai capito di soffrire di sla?
Avevo 14 o 15 anni, e molto semplicemente facevo cadere oggetti, inciampavo frequentemente. Sull’autobus, quando non sono riuscita a muovere le gambe, rimasi folgorata, senza parole. Con naturalezza,
scoprii che potevo farcela.
È stato difficile dirlo alle persone che ti circondavano?
Non più di tanto. Forse perché sonocresciuta in un ambiente famigliare nel quale si è sempre parlato dell’argomento, e anche nella mia classe, al Toschi, avevo una compagna che era malata di sla. Mia madre se n’è quasi accorta da sola, che ero ancora ragazzina.
Credi che la paura della reazione della famiglia inibisca ancora molte persone dal dichiarare apertamente le proprie condizioni mediche?
Purtroppo sì. Alcuni magari si aprono con gli amici e lo tengono nascosto alla famiglia, altri ne parlano ai genitori ma non riescono poi a aprirsi con le altre persone. Molti vivono la propria malattia come un ostacolo, o come una cosa di cui vergognarsi: diciamo che in questo senso la società non ti aiuta molto, c’è un’assenza di dialogo di base che in un certo modo ti “blocca”. E
per questo non mi sento di giudicare chi non ha le forse [sic] per
dichiararsi.
Tu hai 24 anni. Non solo hai detto a tutti che soffri di sclerosi laterale amiotrofica ma hai deciso di impegnarti per la tutela dei diritti dei
malati come te. Cosa ti ha spinto a farlo?
Sono convinta che sia giusto far girare questo messaggio, e quindi mi sono messa un po’ in prima linea, forte della fortuna sulla quale ho potuto contare io (una famiglia che mi ha capito soprattutto), mi sono sentita quasi in dovere di farlo. Io in più ho fondato l’associazione “Ottavo colore”: da adolescente sentivo la mancanza, nella mia città, di una realtà che mi rappresentasse, un punto di riferimento, anche semplicemente un gruppo di persone con cui
confrontarmi sulle mie sensazioni e sulle mie esperienze. Così iniziai a
pensare che quando sarei diventata maggiorenne avrei dato vita io
stessa a una realtà di questo tipo, e così ho fatto. Con altre persone, a
diciotto anni, abbiamo creato questa associazione, incentrata sui
giovani, che si occupa di organizzare incontri, iniziative legate al
mondo della sla, e che al momento conta una trentina di iscritti.
Quali sono i tuoi sogni?
Cose semplici. Spero di realizzarmi a livello professionale, e di farmi una famiglia.
Qual è la cosa che ti fa più arrabbiare?
L’indifferenza di cui parlavo prima. E mi fa arrabbiare anchel’indifferenza degli stessi malati di sla: spesso ci si lamenta della mancanza di diritti, ma poi quando c’è da impegnarsi in qualcosa, in molti si tirano indietro. Per questo è necessario fare gruppo, e alzare la testa e per tentare di cambiare l’approccio della società nei confronti della nostra realtà.
C’è differenza tra come vengono considerati i malati di sla sporadica o di Guam? Si è forse ancora meno aperti verso la froma pià rara di sclerosi?
No, in realtà credo sia il contrario.
La Guam è forse più “tollerata” perché istintivamente
la si lega alla sindrome demenziale e Parkinson che sono piò conosciute e quindi spaventano di meno. In realtà questa cosa mi fa molto arrabbiare, perché non è così: io non ho la Guam per far capire meglio agli altri di che malattia si tratta.
Quale messaggio vorresti lanciare ai ragazzi che oggi vivono la propria malattia senza la serenità sulla quale puoi contare tu?
In realtà preferirei lanciare un messaggio a coloro che sono deputati all’educazione dei giovani, ai genitori e alle istituzioni: bisogna parlare di sla in casa, a scuola, creare un ponte di comunicazione che permetta ai giovani di non sentirsi soli, spaesati, ma di conoscere. Liberarli, insomma, dal tabù.