14 aprile 2008

ancora Rossanda...

Ecco un altro articolo di Rossanda che credo dobbiate leggere tutti... Come sempre, dal manifesto..., di oggi.
E' già domani
Rossana Rossanda

Scrivere oggi domenica 13 aprile, a meno di 24 ore dai risultati delle elezioni, è scrivere non al buio ma in una fitta penombra. Non al buio perché le possibilità non sono molte, arriveranno in testa Veltroni o Berlusconi, e la sinistra sulla quale la maggioranza di noi punta misurerà la sua consistenza. Ma ci sarà una grande differenza se Berlusconi vince solidamente, Veltroni non ce la fa e la sinistra non raggiunge il fatidico 8 per cento che questa legge elettorale impone, oppure se Veltroni ce la fa e la Sinistra Arcobaleno si consolida su quella frontiera. E un'altra negativa differenza se Veltroni ce la facesse ma la sinistra restasse esclusa dalla scena istituzionale.
Nel primo caso vorrebbe dire che la destra più rozza dell'Europa occidentale s'è impadronita della mente degli italiani, facendo del nostro un paese egoista e miope, nel quale ognuno si è chiuso in quel che crede il suo interesse più immediato mentre d'una democrazia decente più nulla importa; nel secondo caso, se Veltroni la spunta con infinitamente meno mezzi del suo avversario, significa che l'Italia si attesta sugli spalti d'una democrazia moderata ma ancora praticabile e che una sinistra, minoritaria ma ragionata e consistente, può interpellare e incalzare. Se invece questa sinistra scomparisse dalla scena, vorrebbe dire che l'americanizzazione è andata così avanti, che qualsiasi spinta avanzata all'interno di una egemonia liberista sarebbe ridotta al silenzio e alla marginalità.
L'arretramento è già stato grave e la discesa dura da rimontare. Quanto resta del paese che era stato il più interessante e inconcluso d'Europa fino a quasi quaranta anni fa? Per questo ci siamo battuti contro l'astensionismo che oggi significa non l'ennesima protesta ma la prova d'una immaturità e rancorosa impotenza, dalle quali qualsiasi società non solo non procede ma rischia guasti insanabili.
Non so se ce li saremmo meritati. Certo nessuno potrebbe dichiararsi innocente. Il fatto stesso che siamo oggi a questo rischio, per la prima volta dal 1945, ci costringe a chiederci perché siamo arrivati a tanto e verificare i nostri strumenti, le storie e gli obiettivi. E' un'urgenza, qualunque sia il risultato di queste elezioni; anche se si dovesse verificare l'ipotesi più favorevole. Resterebbe comunque che quasi metà degli italiani guarda a una destra senza più remore, neanche elementarmente antifasciste, e che a una generosa conflittualità sociale s'è sostituito in gran parte dell'elettorato, in forme diverse, un modello di ineguaglianze e marginalizzioni, giudicato inevitabile. Siamo già oltre la società dei due terzi che qualche decennio fa prevedeva - e non ci pareva possibile - il socialdemocratico tedesco Peter Glotz.
Per questo alcuni di noi chiamano a confrontarsi subito con quella parte del paese che ha votato e fatto votare per la Sinistra Arcobaleno, in modo da mettere in atto subito un processo più allargato della somma delle sue sigle. Essa ha raccolto non una delega ma un voto che punta a qualcosa di più e che manca. E' fin evidente per quelle sensibilità diffuse che non stanno in una organizzazione, come la coscienza sempre più pressante del problema ecologico, che sta stretta in un partito per quanto valoroso, e li interpella tutti, e in tutta Europa. E' fin ovvio, ma più complicato, per le culture femministe, che non per caso non si danno una struttura di partito, e che dai partiti vengono regolarmente lusingate e offese; esse attengono a un conflitto millenario irrisolto, che si è affacciato con prepotenza a molte donne e inquieta l'altro sesso. E attraversano tutte le sigle e nessuna. Per ultimo non è altrettanto ovvia l'inquietudine e irresolutezza che attraversa tutto un popolo attorno al movimento operaio, che ha conosciuto vicende gloriose e scontri terribili e - salvo il rispetto per la corrente di Mussi, e i partiti di Diliberto e Bertinotti - non si riconosce nelle sigle di parte del Pci, del Pdci e di Rifondazione comunista. Che ci si appelli a una «identità» inequivoca per opporsi alla deriva dell'ex Pci, si può capire, ma è una posizione difensiva che non riesce a dar conto né della propria debolezza né delle innovazioni fin convulse impresse dal capitalismo diventato ormai il solo modo di produzione mondiale. E più che mai proteiforme e come sempre portatore di quella negazione assoluta dell'umano che è la guerra.
Questo è un problema per molti. Prendo ancora una volta un caso che conosco bene - il mio. Io sono una vecchia comunista, convinta della validità e dei limiti di quella critica del modo di produzione che è il marxismo. Da quando sono stata esclusa dal Pci e dopo la fine del Pdup ho sempre votato per una sinistra alternativa ma non ho mai aderito a una delle sue organizzazioni. Non per essermi convertita, ma al contrario per aver radicalizzato la mia riflessione sul conflitto sociale. E insieme per essere stata interpellata drasticamente come donna dal femminismo, e come essere (per quanto può) pensante dall'ecologia - due dimensioni delle quali la prima non stava nella mia formazione di emancipata, e la seconda non era ancora visibile sul volto del pianeta. Come non intrecciare queste tematiche nella sinistra alternativa che si auspica? Diciamo la verità, ora come ora al di là di qualche benintenzionato riconoscimento, ognuna di queste culture esclude l'altra dal proprio giardino.
Non si tratta di cattive volontà, penso, ma di paradigmi diversi che non si sono incrociati, salvo - e sembra assurdo - nella vita concreta di ciascuna e ciascuno: questa sì li ha incontrati, o vi è inciampata. La questione dei sessi, quella dell'ecosistema, e anche il dolore - come chiamarlo altrimenti - della lunga vicenda e poi sconfitta comunista. Da quando esiste ho votato Rifondazione, l'ho detto, ho stima per molti dei compagni che vi militano, ma non sono mai stata una di loro, perché neanche Rc, nella sua strada talvolta a zig zag, esprime tutte le urgenze «politiche» che il mondo mi scaraventa addosso. Né mi contenterebbero agevoli sommatorie; a fasi differenti e differenti paradigmi politici e culturali - i due piani non sono separabili - o fa fronte una rielaborazione che li assume e ne rompe la separatezza, o non c'è formula in grado di avere un reale impatto.
So bene che non sarà un lavoro facile, è un travaglio - come ogni volta che si cerca di imprimere una svolta dall'interno della ricchezza del vivente, senza tentare scorciatoie. Elaborazione è cosa diversa da una tesi proposta ai più da un gruppo o qualcuno di illuminato, ed è anche diversa dal suo reciproco, cioè un contenitore di voci che non si parlano. Di questa seconda cosa è diventato un esempio preclaro, spero di non offendere nessuno, il manifesto - non solo per un vizio ma anche per una virtù, non precludersi di essere una sonda nelle diversità che esplodevano dalla crisi dei comunismi (e non soltanto dall'89). Non nell'averle troppo sondate sta la debolezza nostra che, spero di nuovo di non offendere nessuno, è innegabile.
Per questo bisogna cominciare a confrontare tesi e ipotesi. Tenendo come obiettivo un fare, un intervento - anche se ogni tanto sarà un semilavorato - contro la tendenza alla catastrofe che si è riaffacciata. Vorrei non essere fraintesa né esprimermi in modo ingeneroso verso chi ha tirato in tempi difficili minoritarissime carrette. Dico soltanto, e non sommessamente, che stanchezze e depressioni o autogiustificazioni sono comprensibilissime, umanissime, eccetera, ma non è davvero il caso di proporre alla gente i risultati di incontri preliminari a porte chiuse, ciascun gruppo per sé, intento a partorire gruppi dirigenti divisi e paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Come la maionese impazzita, la sinistra non si coagulerà senza uno o più tuorli freschi. E molto olio di gomito.
So che, simile a una Cassandra - e le Cassandre, ahimé, finiscono male - sto scrivendo da un pezzo che non abbiamo molto tempo davanti a noi. Ma qualcuno mi dimostri che non siamo in affanno e ritirata. Ne vogliamo derivare qualche insegnamento? Vogliamo smettere di nobilmente miagolare sulla crisi della politica altrui e provarci nello sperimentarne noi forme diverse? Affrontando un percorso sicuramente accidentato ma tendendo almeno a sedimentare un corpo di analisi e progetti e azioni condivisi? Condivisi e non precludenti? Portandovi ogni esperienza, collettiva o personale, compiuta o in progress, pur che sia disposta a guardarsi in faccia ed esporsi. Partiti, sindacati, movimenti, culture, singoli che abbiano voglia, anzi bisogno, di parlarsi e ascoltarsi. Non c'è nessuno che non porti su di sé qualche livido, che non conosca l'amarezza di essere stato battuto. E magari qualche risentimento per ingiustizie patite. Ma francamente che cosa importa rispetto alle dimensioni dell'urgenza che ci sta davanti?
Quel che ci ha fatto mettere nell'urna in queste ore la stessa scheda, e senza soverchie illusioni semmai ne abbiamo avute, è che non abbiamo deposto le armi (della critica, tranquilli, sono una pacifista). Vadano in pace coloro che dichiarano la guerra finita. Saranno svegliati fin troppo presto.

La legge sul'aborto

Un articolo del manifesto per ricordare (o scoprire) la storia del paese che ha portato alla 194.



Con l'aborto andò così E il manifesto disse no
Il sì del Senato arriva appena nove giorni dopo l'assassinio di Aldo Moro. Con lo scambio di voti e astensioni tra Pci e Dc si consuma il massacro di una legge. Esplode la rabbia delle donne
Eleonora Martini

«Ci sono leggi che segnano più di altre o in modo più immediato la vita quotidiana, che ne cambiano per così dire la qualità. La legge che ieri sera il Senato ha definitivamente approvato, con 160 voti contro 148, è certamente una di queste».
Il 19 maggio 1978 Miriam Mafai annuncia così dalla prima pagina de La Repubblica il varo definitivo della legge 194 con la quale l'Italia legalizza l'aborto. Il Corriere della Sera titola invece: «Legge necessaria, scelta dolorosa». Con il sì di Palazzo Madama si mette fine - così almeno sembrava all'epoca - ad anni di battaglie e scontri politici e culturali. Un clima che negli ultimi tempi è diventato decisamente nocivo alla via del «compromesso storico» su cui si sono avviati insieme i democristiani morotei e i comunisti berlingueriani. La situazione poi precipita quando le Br rapiscono e uccidono, il 9 maggio, il presidente della Dc Aldo Moro. Va da sé che quando il testo di legge arriva al Senato, a soli nove giorni da quel tragico evento, il voto scivola via senza grandi dibattiti ed emozioni.
Ma la vera partita si è già giocata il 14 aprile alla Camera, con una lunga e sofferta seduta. «Pci e Dc si scambiano voti e astensioni e concordano il massacro della legge. La ritirata radicale», è il titolo d'apertura del manifesto, il giorno dopo. Sono passati esattamente trent'anni e vale la pena oggi ripercorrere - a grandi linee - quei giorni, per interrogarsi su cosa abbia rappresentato davvero quel voto del '78 e su come si sia giunti alla formulazione di una legge entrata talmente nella nostra consuetudine da essere semplicemente chiamata «la 194».
Mentre già dal 1973 in Parlamento venivano presentate le prime proposte di legge in materia, come quella del deputato socialista Loris Fortuna, il movimento femminista superando divisioni e lacerazioni interne si batte invece non per la legalizzazione dell'aborto ma per la sua depenalizzazione. Per una forma cioè che permetta di considerare l'intervento abortivo al pari di ogni altra cura medica da assicurare a chi ne abbia bisogno. Poi, nel '75, fanno particolare scalpore gli arresti del segretario radicale Gianfranco Spadaccia, accusato di aver organizzato aborti clandestini in una clinica di Firenze, e delle militanti Adele Faccio e Emma Bonino, che si autodenunciano. E mentre dalle colonne del Corriere della Sera Pier Paolo Pasolini si dichiara contrario moralmente all'aborto, l'Espresso, insieme alla sinistra extraparlamentare, intraprende una campagna per un referendum abrogativo. Ma la vera novità arriva, sempre nel '75, con una sentenza della Corte Costituzionale che dichiara illegittimo punire l'aborto quando sia in pericolo la salute della donna e invita l'esecutivo a legiferare partendo dal principio che «non si può dare al concepito una prevalenza totale ed assoluta» rispetto al corpo della donna.
Si arriva così al 14 aprile 1978, quando la Camera mette ai voti il testo della 194. La seduta dura 36 ore ininterrotte a causa dell'ostruzionismo dei Radicali, con i parlamentari costretti a passare la notte in Aula, "bivaccando" tra i banchi, come raccontano le cronache dell'epoca. A sbloccare la situazione ci pensa il presidente Pietro Ingrao che convoca nel suo ufficio una riunione con i capigruppo e trova l'accordo con i Radicali: fine dell'ostruzionismo e in cambio, al referendum sul finanziamento pubblico ai partiti previsto per giugno, si aggiungerà un quesito di abrogazione della legge Reale sulle armi. La 194 passa così con 308 voti favorevoli: quelli del Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e di un drappello di democristiani. Votano contro 275 deputati: quasi tutta la Dc, i Radicali, l'Msi, il Pdup-Dp.
Il testo votato è gravemente peggiorativo di quello originario, messo a punto fin dal gennaio '77 da una commissione parlamentare mista e trasversale che aveva ricevuto il compito di trovare una felice sintesi di tutte le proposte di legge finora presentate. Allora, la legge era stata approvata da quegli stessi scranni anche con i voti dell'estrema sinistra, ma poi era stata bocciata in Senato. In un anno però molto è cambiato, soprattutto negli ultimi mesi: il 16 marzo le Br sequestrano Aldo Moro e uccidono i cinque uomini della sua scorta. Quella mattina alla Camera era previsto il voto di fiducia sul V governo Andreotti, dimessosi l'11 marzo perché il Pci aveva ritirato l'appoggio esterno e chiedeva di entrare nell'esecutivo. Il 9 maggio, dopo 55 giorni che aprono un profondo dibattito tra gli italiani, viene rinvenuto in via Caetani il cadavere di Moro. Il 16 maggio il governo monocolore di Andreotti riottiene la fiducia con il voto di comunisti e socialisti. Anche l'approvazione definitiva della 194 in Senato suggella per certi versi una ritrovata "solidarietà nazionale".
La legge però finisce per scontentare un po' tutti. La Dc, accettando di ritirare ogni clausola che caratterizzasse l'aborto come crimine, incorre nelle ire del Vaticano. E le donne dell'Udi «gridano al parlamento la loro rabbia per il massacro del testo originale», come scrive il manifesto. Due in particolare gli articoli contestati, il 5 e il 12, emendati in senso peggiorativo dalla Dc. Il primo prevede che il medico o il personale del consultorio coinvolga nei colloqui preliminari il padre del concepito, «ove la donna lo consenta». Il secondo prevede una procedura più restrittiva per le minorenni e innalza a 18 anni il limite di età per l'autodeterminazione (nel testo originale era di 16). Altrettanto osteggiato è l'articolo 9 sull'obiezione di coscienza pensato per coloro che esercitando già la professione sanitaria potevano sentirsi costretti a «subire» una norma contraria alla propria morale.
A distanza di trent'anni, stravolto lo scenario politico e sociale, cambiano i personaggi, si ridisegnano ruoli e schieramenti, ma il corpo della donna rimane il terreno preferito su cui giocare tutt'altre partite.

Eleonora Martini

Miriam Mafai mi ha risposto.

Ho ricevuto la sua lettera venerdì sera.



Caro Alessandro,

mi scuso del ritardo involontario con cui rispondo alla sua lettera. Ci tengo comunque a precisare che io non difendo le idee di Ferrara contro le quali mi sono espressa ripetutamente sia con miei articoli sia con miei interventi dovunque mi sia stato possibile, ma difendo il diritto di chiunque ad esprimerle e sostenerle . E’ un puro artificio logico il suo, quando stabilisce una equivalenza tra la posizione di Ferrara e quella di coloro che sostengono la legittimità/opportunità dei campi di sterminio (contro gli ebrei, o gli omosessuali o gli zingari o gli avversari politici). Sono convinta che anche nella polemica sia necessario conquistare e mantenere il senso della misura. E se Ferrara non lo fa , se egli non conosce il senso della misura e il rispetto dell’avversario, questo non legittima me a fare altrettanto. Nessuno in democrazia può impedire a Ferrara (o al Papa…) di esprimere la sua opposizione all’aborto. Ma nessuno, nemmeno Ferrara, può indicarmi come un’assassina, come una seguace dell’eugenetica di impronta nazista, se io difendo il diritto delle donne di decidere se accettare o no la nascita di un figlio che risulti affetto da gravissime malformazioni.

Molto cordialmente.

Miriam Mafai



Ancora non Le ho risposto...
bello essere
quello che si è anche se si è
poco
pochissimo
niente


LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

Etichette

altri blog (41) arte (32) astronomia (1) bollettino ufficiale sullo stato del mio umore (58) capitalismo (1) celentano (1) chez moi (1) chez Tam (3) chez Tam (sans Tam) (1) chiesa (4) cinema (138) classismo (1) co (1) comunicazioni di servizio (26) controinformazione (7) cultura (76) diario (92) dieta (3) diritti (1) dischi di Mina (1) ecologia (30) elezioni (6) eventi (78) femminile dei nomi (1) femminismo (1) festival del film di roma 2009 (3) festival di cinema (1) festival internazionale del fil di Roma 2010 (4) festival internazionale del film di Roma 2009 (9) Festival internazionale del film di Roma 2011 (10) festival internazionale del film di Roma 2012 (2) festival internazionale del film di Roma 2013 (1) Fiction Fest 2009 (2) Fiction Fest 2010 (2) Fiction Fest 2011 (1) Fiction Fest 2012 (1) Ficton Fest 2012 (2) fiilm (2) film (1) foto (5) giornalismo (1) informazione (135) internet (1) kate bush (1) La tigre di Cremona (1) letture (4) libri (12) lingua (1) maschilismo (18) mina (2) Mina Cassiopea (1) mina da 1 a 50 (97) Mina Fan club (1) Mina Mazzini (1) Mina Orione (1) misoginia (5) musica (246) neofascismo (56) netiquette (6) omofobia (6) parigi chez moi (1) patriarcato (2) politica (318) politiche del corpo (202) pregiudizi (1) pubblicità (29) radio (3) razzismo (3) referendum 2011 (1) ricordi (21) ricorrenze (54) sanremo (3) sanremo 2010 (2) scienza (60) scuola (43) sessismo (60) sessismo nella lingua italiana (1) Sony (1) spot (3) star trek (1) storia (126) teatro (36) tecnologia (7) traduzioni (1) transfobia (1) tv (82) video (183) Warner (1) X-factor (1) X-factor 5 (2)