Nel 1995 il manifesto fece uscire dei fascicoli sul 25 aprile. Visto che oggi, sempre di più, la festa di liberazione nazionale viene vista come la vittoria di una fazione (sci!) della guerra civile (sic!!!) (pensate al Risorgimento romano il Vaticano sarebbe la fazione che ha perso... non lo stato estero che impediva la nascita di quello italiani...) ripubblico questo articolo di Rossanda.
In molti - al suo sorgere - pensarono che il fascismo sarebbe durato pochi mesi. Niente di più che una parentesi...(dal sito del manifesto).
Non un colpo DI STATO
Cosa fu il fascismo? perché si affermò e durò più di vent'anni? Domande su cui si sono divisi gli storici e i militanti politici, interrogativi che soprattutto oggi non possiamo eludere. Le radici del regime affondano nella crisi della cultura politica europea, amplificata dalla guerra: antiparlamentarismo, bisogno di leader carismatico, azzeramento del conflitto di classe nell'aziendalismo, razzismo e antisemitismo ne furono gli elementi costitutivi. Per nulla transitori e ancora attuali.
Rossana Rossanda
Diavolo, siamo diventati fascisti! In quale giorno, mese e anno mio padre può avere esclamato queste parole? Mio padre, per dire un uomo non più giovanissimo, colto, pacifista e avvertito. Non gli ho mai chiesto quando si fosse accorto che una pagina era voltata, e si andava ad avventure pericolose. Nessuno era fascista a casa mia, ma quando si erano resi conto, gli italiani per bene nati a cavallo del secolo, che erano su una via di non ritorno?
Non fra il 1914 e il 1915 - quando Mussolini, espulso dal Partito socialista, lanciava l'appello del "Fascio rivoluzionario di azione internazionalista" e poco dopo fondava, con i soldi degli industriali interessati alla guerra "Il Popolo d'Italia", che sarebbe rimasto fino all'ultimo il giornale del regime. Pareva uno dei tanti interventismi che dovunque avevano spaccato i partiti socialisti in Europa. E lo stesso quando, dopo Caporetto, fra una denuncia e l'altra per la sconfitta si formava presso il Senato il "Fascio parlamentare di difesa nazionale" cui aderivano ben 250 fra deputati e senatori. E il "Popolo d'Italia" si scagliava contro i socialisti e il "bolscevismo". Né quando nel 1919 [l'avvocato Olivetti aveva inventato la dizione "fascisti"] a Roma e a Milano convergevano Mussolini, gli "arditi d'Italia", i futuristi di Marinetti e Gabriele d'Annunzio. Mussolini definiva il fascismo come "un movimento spregiudicato" - oggi si direbbe nuovissimo e trasversale.
Forse la preoccupazione dilagò fra il 1921 e il 1922 quando gli squadristi andavano con revolver e bombe a mano, a Milano, Genova, Trieste, contro la protesta operaia. Al congresso del giugno 1922 erano quasi 450.000. E tuttavia gli italiani - a meno di essere sindacalisti e comunisti - parevano più impressionati dal marasma delle istituzioni che dai fasci. E forse tirarono il fiato quando in fin dei conti il 28 ottobre Mussolini fu chiamato da Facta e poi dal re in persona ad assumere il governo - la marcia su Roma non ebbe luogo, non ce ne fu bisogno. Forse la prima vera percezione che si era in un regime, i più la ebbero con il discorso di Mussolini il 3 gennaio del 1924, molti mesi dopo l'assassinio di Matteotti.
E' interessante riandare a questi avvenimenti e ai loro vistosi segnali, perché i due fascismi veri e propri, quello italiano di Mussolini e quello tedesco di Hitler, non hanno nulla del colpo di stato - sono presenti, dichiarati, tollerati e sostenuti a lungo sulla scena. Negli anni Settanta i movimenti italiani pensarono al fascismo come a un'avventura militare - simile al Cile, un golpe. E fose lo pensano i giovanissimi oggi. Ma non fu così. In Italia e in Germania il fascismo si presentò come un movimento eversivo di estrema destra e crebbe e si insediò regolarmente, per così dire legalmente, e con molte benedizioni. Compresa quella dei liberali, i quali trovarono giustissimo che di fronte al movimento popolare di protesta si chiamasse al governo un bastonatore delle piazze. Se ne sarebbero doluti dopo, quando furono buttati fuori: ma anche allora sostennero che il fascismo da principio era una buona cosa. Anche in Germania Hitler nasce dopo la guerra, e perdipiù sul rancore della sconfitta, e tra il 1920 e il 1921 il suo partito apertamente si organizza in struttura paramilitare. Ma aveva l'appoggio dei grandi industriali: Thyssen confesserà a guerra finita che aiutò Hitler sapendo quel che era, perché rispondeva ai suoi interessi, e se ne era pentito soltanto nel 1939. Nel 1926 gli iscritti al partito nazista erano circa cinquantamila: fino a diventare un milione e mezzo nel 1932. In quell'anno si presero il 37 per cento dei voti alle elezioni, raddoppiando quelli di quattro anni prima. Come il fascismo, il nazismo è visibile, non si nasconde. Né l'Italia né la Germania sono state sorprese e ingannate. Si dice oggi che una responsabilità della loro insorgenza si deve alla minaccia di una sinistra comunista e rivoluzionaria.
In Germania lo storico revisionista Nolte, bene accolto anche da noi, lo dichiara una comprensibile reazione ai comunisti e all'Unione Sovietica. Ma è da dubitare che nell'Italia del 1922, quando Facta chiama Mussolini, si temesse una rivoluzione proletaria: il partito comunista era appena nato, modesta minoranza uscita dal Partito socialista, l'occupazione delle fabbriche era spenta nel 1920; infuriava la crisi, non la rivoluzione. Tanto meno in Germania: nel 1932 il grande movimento rivoluzionario era battuto da oltre dieci anni, era divampato e fu soffocato nel 1918 e i suoi leader, Liebknecht e Rosa Luxemburg, assassinati. Hitler vince agitando il sogno del Terzo Reich, una Germania possente che si spinge all'est, che si vendica delle umiliazioni subite, che non ha conflitti sociali, con un capo carismatico che affermerà l'ideale tedesco contro le razze minori. E' una pulsione violenta, risponde alla crisi postbellica e poi alla stretta del 1929, alle quali la repubblica di Weimar non ha saputo come far fronte, ma non perché fosse troppo a sinistra. Al contrario, la strada alla dittatura è spianata da una grande socialdemocrazia sempre più di destra e un partito comunista sempre più settario, una spirale fatale. La gente comune, italiani e tedeschi, diranno poi di non avere neppure sospettato che fascismo e nazismo li avrebbero portati al totalitarismo, alle leggi razziali e allo sterminio degli ebrei, alla guerra. Ed è vero, sponsors e seguaci non hanno chiaro dove si va a finire, ma hanno chiaro dove si comincia, non è un inizio innocente, e poi accetteranno il tragitto grado per grado. Uno storico come Renzo De Felice ammonisce che nel 1919 l'Italia non era ancora fascista, che quando lo divenne non intendeva diventare totalitaria, che quando fu totalitaria non pensava alla guerra e fece le leggi razziali perché in Germania c'erano da un pezzo - ma è soltanto una lettura rovesciata del percorso, che va letto nell'altro senso. Le scelte antidemocratiche, antioperaie, colonialiste, antisemite e belliciste erano delineate, stavano negli umori, e quando furono esplicitate la gente le accettò, malgrado qualche mormorìo. Non hanno una vera data perché non sono la svolta repentina davanti alla quale si sussulta e grida: basta. No, da cosa nasce cosa.
Ma da quali cose nasce la cosa fascista?
Questa è la vera domanda da farsi, per capire se il fascismo è ancora un pericolo. I padri fondatori della repubblica ci dicono di no. Hitler e Mussolini si iscrivono in un contesto differente.
E' passato oltre mezzo secolo e la storia non si ripete mai. E' vero. Ma questa ovvietà ha aiutato Gianfranco Fini a portare in meno di un anno il grosso delle truppe dal Movimento sociale italiano, che si diceva esplicitamente fascista, ad Alleanza Nazionale, che dice di non esserlo. La deputata di An che afferma: "Non sono antifascista perché ho poco più di vent'anni e con fascismo o antifascismo non c'entro" è sincera. E appaiono fuori tempo i missini duri e puri di Rauti e Pisanò come i naziskin, sono così marginali da non potersi considerare un pericolo.
E tuttavia nella dichiarazione che il fascismo è fuori dal nostro mondo qualcosa non persuade. In che cosa sono estranee al nostro mondo le condizioni dalle quali è nato, le sue idee e le sue pratiche? Bisognerebbe convenire, per affermarlo, con la tesi della fine della storia di Francis Fukujama: ormai il mercato è diventato un felice regolatore della crescita e la democrazia domina dovunque pacificamente, perché il comunismo è fallito. Ma la crescita si sta verificando tutt'altro che lineare, apre voragini impensate e da tutte le parti esplodono guerre. Sacche di frustrazione e voglie di rivincita, religiose e no, sono non meno estese che nel 1919. Va dunque visto con serietà che cosa in realtà il fascismo è stato. Quale fu l'errore di chi lo incoraggiò o non lo vide? Prima di tutto, esso apparve un fenomeno marginale. Era estremista e sovversivo, dunque sarebbe stato minoritario e transitorio. Così ritennero sia la destra classica sia la sinistra italiana nei primi anni Venti, e così ritenne tutto l'establishment tedesco a cavallo dei Trenta. I fascisti sono una parentesi. Lo pensa Benedetto Croce, lo pensano i molti professionisti, perlopiù economisti, che entrano nei primi governi di coalizione di Mussolini pensando di servirsi della sua forza e dominarlo con la loro competenza.
E' una cecità più interessante della scelta degli intellettuali che gli resteranno a lungo fedeli - i Papini, i Prezzolini, molti della "Voce", i futuristi, D'Annunzio, grandi pittori come Sironi, grandi architetti come quelli del Movimento Moderno.
Costoro vedono nel fascismo [nella rivoluzione fascista, ché tale si chiama] una innovazione radicale rispetto alle meschinità, al conservativismo, al puzzo di burocrazia e sacrestia dell'Italietta moderata. Dopo l'orrore della prima guerra mondiale, che era stata un macello, gli inverni fra i fanti assiderati o squartati in trincea, gli assalti alle baionette, i fucilati per diserzione, i patimenti del dopoguerra, il moderatismo riproponeva la stessa solfa, mediocre e politicante. Li affascina del fascismo la reazione alle chiacchere dei ceti politici e nella rottura con le forme ottocentesche intravvedono un'avventura vitale. Si può rompere da destra e da sinistra, in Italia una sinistra c'è, e non è soltanto la protesta operaia e in parte contadina: c'è la cultura dell' "Ordine Nuovo", ci sono Gramsci e Gobetti, così diversi dal vecchio partito socialista, che pure in Turati, Treves o Andrea Costa non ha figure di basso profilo. Ma l'intellettualità rompe da destra, perché il potere ha un fascino, e il fascismo ha il gusto della trasgressione, del "gesto" e della "visibilità", è il primo fenomeno politico mediatico. Poi diversi intellettuali si ritireranno, e alcuni, per esempio gli architetti, passeranno all'antifascismo attivo; ma tardi, e la loro sarà una rivolta morale, più che l'esito di una analisi politica. Di che materia fosse fatto il fascismo, perché si radicava invece che spegnersi appena finito lo sporco lavoro, si chiesero soltanto le forze politiche -liberali, socialisti in esilio e comunisti.
Ma quale è la loro diagnosi? Anche quando lo riconosce come una sciagura radicata, l'anima liberale pensa che il fascismo non è che una parentesi. Non durerà, pareva vacillare nel 1924, rivacilla nel 1926. E' un errore della storia. Ancora tardi su "Critica Sociale" Rodolfo Mondolfo se ne stupisce, come Croce.
Non è connaturato alla borghesia, che è sostanzialmente democratica e il contrario dell'estremismo. E' una specie di incidente di percorso. Né i liberali sono illuminati dallo zelante allineamento dei grandi gruppi agrari e industriali con il regime.
A sinistra, nel giovane Partito comunista, la posizione è paradossalmente speculare. In Amedeo Bordiga, figura coerente, avversario di Gramsci che Gramsci rispettava, la lettura è analoga: il fascismo è uno strumento secondario del capitalismo e sarà presto sostituito dal capitalismo più forte. La vicenda italiana e soprattutto tedesca non è che un frammento della lotta fra imperialismi, nella quale la Germania e l'Italia rappresentano la parte debole e il nemico principale va visto nel capitalismo classico e forte, quello anglosassone e americano. Bordiga starà con molta dignità al confino, e poi, uscito, non sarà disponibile a nessun tentativo fascista di contattarlo; ma non parteciperà alla lotta antifascista. Pensa che tutto sommato, se vincesse la Germania sarebbe un colpo al potere capitalistico mondiale.
Si deve a Gramsci un'analisi più complessa. "L'Ordine Nuovo" e più tardi le "Tesi di Lione" vedono nel fascismo una forma diversa di dominio capitalistico, che riesce a convogliare le nuove masse contro se stesse: è una risposta perversa alla crisi, alla oscurità del futuro, al bisogno di risarcimento e di vendetta. Il fascismo si rivela il sistema di segni e simboli più capace di far leva su sentimenti antichi e rinnovati, plebei più che popolari ma profondi e niente affatto transitori. Il popolo ha pagato la guerra con il sangue e su di esso cadono i pesi della distruzione. Nel combattentismo, nel reducismo, nel rifiuto dell'ordine - che i fascisti convogliano in torbidi umori, il nazionalismo [l'odiata Francia, la "perfida Albione"], l'ossessione della demo-pluto-giudaico-massonica congiura contro la nazione - trovano eco ferite autentiche. I colpevoli sono additati nei partiti, nel parlamento imbelle di mangiapane a ufo, nella burocrazia dello stato; ma anche ad essa si indicano come nemici le sinistre, l'operaio che è bolscevico, i contadini che pretendono la terra, "agitatori" che provocano "disordine".
Occorre un esecutivo forte, anzi un uomo forte, un paese unito dalla sua volontà e il suo prestigio.
Hanno poco tempo, i comunisti dell'Ordine Nuovo, per capire le contraddizioni dolenti dalle quali nasce la voglia popolare di destra, il fascino del "diciannovismo" - anche quello della violenza, che parla alla frustrazione giovanile. Sono le Tesi dette di Lione, nel 1925, che definiscono la "natura di massa" del fascismo, anche se non se ne deriva una strategia di lotta diversa dalla rivoluzione socialista. E il fascismo apparirà a lungo assieme minaccioso e in difficoltà, come nel 1924 dopo l'assassinio di Matteotti. Nel 1926 Gramsci è arrestato. Nel 1929 Togliatti per l'Internazionale Comunista definirà il fascismo l'espressione estrema e sciovinistica del capitale finanziario e industriale, ma resta la paralizzante identificazione tra socialdemocrazia e fascismo. Su questo si divideranno anche i compagni in carcere: per Gramsci occorre trovare una trincea intermedia di lotta, poi dirà una "Costituente", ma resta isolato.
Fino al 1935 la questione dei fascismi in Europa - si sono formati da tempo in Portogallo, stanno rovesciando la repubblica in Spagna, sono avanzati in Grecia, nel 1934 hanno messo la Francia in pericolo - rappresenta il punto acuto della sconfitta delle rivoluzioni in Europa. Bisogna capire dove si è sbagliato. E come sempre dopo le sconfitte, il movimento si divide. Si ritroverà con uno slancio mai conosciuto prima nei fronti popolari, che a quella domanda danno una risposta mobilitante. Ma è tardi, il fascismo corre verso la guerra e la rovina di milioni e milioni di uomini.
Anche la società italiana ricomincerà a guardare a se stessa dopo la metà degli anni Trenta. Con fatica, e non soltanto perché la repressione è durissima. Ma perché il senso comune fascista si è esteso dovunque, o in termini sovversivisti [ma è una minoranza], o in termini di rassegnazione [e sono molti] o in ancora oscure speranze nel Capo. Folle osannanti salutano l'impresa etiopica, si schierano per Franco in Spagna e accolgono la dichiarazione di guerra. Le piazze non sono tutto il paese, ma rappresentano una realtà. Saranno mandate a "conquistare la Francia" già a terra, e in Albania e in Grecia troveranno un osso duro da rodere. Ma soprattutto saranno spedite con scarpe di tela e giacche di orbace nell'immensa pianura russa e vi morranno. L'Italia è a pezzi l'8 settembre.
E' un duro risveglio, una lezione terribile. Alle loro delusioni e mortificazioni era stato dato un falso obbiettivo e gli errori si pagano. La natura profonda del fascismo era sfuggito ai democratici e, pare a me, sfugge a coloro che ne garantiscono la fine storica.
E' vero che dalla sua tragica parabola l'Europa - è un figlio dell'Europa - qualcosa ha imparato. Ma negli ultimi anni non riconosciamo nella trama dei giorni e nel logoramento della politica un filo con il quale si sono tessute terribili tele? La polemica antipartitica e antiparlamentare facilmente si ribalta da sinistra a destra; si direbbe che è più consueto questo movimento che quello inverso. E la voglia di un leader carismatico, di governi forti? e la negazione del conflitto di classe, l'identificazione forzosa di lavoratori e padroni nell'azienda? e il razzismo risorgente come guerra fra i poveri? e l'antisemitismo, bestia mai spenta, sempre in agguato negli angoli oscuri della società? Questi sono eterni fenomeni delle crisi europee. Sono radicati nella cultura. Non c'è in essi nulla di transitorio o esorcizzato per sempre. L'interesse per la storia del fascismo italiano sta in questo.
Se oggi io sono qui e posso scrivere questo mio blog lo devo alle partigiane e ai partigiani, di qualunque orientamento politico, anche di quella parte che qualcuno vorrebbe irredimibilmente a me avversa, che sono morti mentre rendevano possibile la Repubblica Italiana.
A loro va la mia più grande e totale riconoscenza.
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