Nuova, vorrebbe omaggiare il precinema di Maray. Mostra una donna nuda, con arco e freccia, che si china e punta in alto la sua arma, ripetuta diverse volte lungo l'immagine, come in una serie di specchi da Luna Park.
Nuda, Donna.
Solo la donna.
Come dire che la donna nuda vende ancora tutto, anche il cinema.
E' vero che allora, nella seconda metà dell'800, le foto di Maray fecero scalpore proprio per i nudi. Ma già allora erano nudi sia femminili che maschili.
Invece la sigla del 2012 vede solo una donna, nuda. Si tratta della rielaborazione di un lavoro precedente, che vedeva un video in 3d dedicato a Tyche, la Dea greca della fortuna.
Una immagine del genere, scelta come nuova sigla del festival del Film, non può che infastidire per la sua marginalità e il maschilsimo di fondo.
Una sigla che al di là della citazione fotografica - le foto di Maray, che non ha MAI voliuto riprodurre il movimento ma scomporlo (anche se al Museo del Cinema di Torino le sue foto sono state animate, compiendo un falso storico e scientifico enorme) - non dice nulla del cinema a differenza della sigla precedente, che mostrava alcune delle sequenze dei film italiani (o di registi italiani) che ci hanno reso celebri al mondo...
Già questo italiota e maschilista segno dei tempi ci fa capire che della creatura creata 7 anni fa da Walter Veltroni è rimasto poco e niente.
Adesso dovrei parlarvi dei film che ho visto finora. Ma si è già fata l'ora di vedere il prossimo film...
I FILM
A Walk In the Park (Usa, 2012) di Amos Poe
Amos Poe chi è costui? Uno dei principali esponenti del cinema Punk The Blank Generation (1976) nel quale figurano Richard Hell, Talking Heads, Television, Patti Smith e Wayne County. Uno dei fondatori del No Wave Cinema grazie a film quali The Foreigner (1978), con Debbie Harry and Anya Phillips, e Subway Riders. Ancora uno dei fondatori del Remodernist film movement, la nuova incarnazione del postmodernismo cinematografico. Insomma un film importante a vedere queste credenziali. Invece A Walk In the Park si riduce a un'ideina una di un tizio che ha un rapporto conflittuale con la madre, che cita Psycho (il che la dice lunga sulla profondità psicologica dell'introspezione che il personaggio fa nel film) senza una vera idea (quella più originale lo split screen e le dissolvenze incrociate. WOW!) . Un film vecchio, inutile e noiosissimo, girato e montato con ottima professionalità. Professionalità ai porci, come le famose perle...
Centro Historico (Portogallo, 2012) di Kaurismaki, Costa, Erice e De Oliveira
Un solo film, composto da quattro diversi cortometraggi di altrettanti registi portoghesi. Il primo di una cospicua serie di cortometraggi tutti prodotti o dalla fondazione della città di Guimaraes o nell'ambito dei finanziamenti europei per la città portoghese che è stata nominata capitale europea della cultura per l'anno 2012.
As we take a stroll through modern-day Guimarães (the founding city of Portugal), we ask ourselves: “What stories does it have to tell us?” The answer to this question comes from the distinct voices of four filmmakers, with unique visions of cinema, together participating in one film. The multiple dimensions of history come from both fiction and reality: things are not what they first seem*.O Tasqueiro di Aki Kaurismaki
racconta la giornata di un baristas-cameriere-cuoco che non sa cucinare né fare affari. che è solo e rimane solo (aspetta qualcuno che non arriva e il mazzo di garofano finisce per terra). Balla con delle carampane e prima di ritirarsi mete fuori il piatto (in splendido coccio blu) col late per il gatto. Senza dialoghi. Come ci ha abituati Kaurismaki.
Lamento da Vida Jovem, di Pedro Costa, il meno felice dei quattro corti. Col solito stile estenuante di Pedro Costa, lentissimo, ripetitivo, faticoso e, in fondo, inutile, racconta del delirio di un veterano ospedalizzato che ricorda il tempo della rivoluzione portoghese... Un tizio, nero, che parla mentre un mimo vestito come un militare (anche la faccia verde come la mimetica) rimane fisso come testimone\evocatore, bello i primi cinque minuti, puoi una insopportabile rottura di coglioni. meglio le parti iniziali e finali dove altri neri racconta do come questo Selva, questo il suo nome, si sia perduto nella foresta... Omaggio alla pittura ottocentesca. Lunghissimo di durata se ne salvano si e no cinque minuti. La misura maestro, la misura.. Garnde arte perduta del nuovo millennio.
Vidros Partidos di Victor Erice il più riuscito e interessante dei quattro corti intervista alcuni abitanti della città di Guimaraes che hanno lavorato in quella che è stata la seconda fabbrica per importanza nella produzione tessile di tutta europa dal 1842 al 2002 e ora è chiamata la fabbrica dei vetri rotti. In quella che era la sala del refettorio, avendo alle spalle una foto di fine secolo (800) con gli operai e le operaie d'allora racconta vicissitudini generazionali di uomini e donne, tra ricordo personale e memoria storica, tra recupero della consapevolezza delle condizioni di vita di allora, peggiori di quelle odierne, e dei diritti conquistati e perso persi perché dati per scontati, il corto vive in un perfetto equilibrio tra fiction (le parti dette dagli intervistati a volte sono evidentemente lette da dei gobbi) e documentario, mentre il corto stesso è solo un esperimento una sorta di appunto generale su un film da farsi.
Unico elemento dolente un sottile ma evidente maschilismo di fondo che fa virare i racconti femminili più sugli aspetti personali e intimistici e lascia quelli sociali pubblici e politici (nel senso di interpretazione della storia e preoccupazione per la collettività) agli uomini.
Una deformazione data da uno stereotipo di genere che si è assimilato di sicuro, ma non per questo meno meno esecrabile.
Quel che di politico c'è nei racconti femminili riguarda sempre lo specifico di genere: la mezzora al giorno concessa alle madri per allattare i figli, la sperequazione dello stipendio, l'impossibilitò per le figlie di accedere all'istruzione denunciando un mondo proletario di provenienza contadina bigotto, reazionario e maschilista ben diversamente dall'immagine idilliaca che a sinistra si è sempre cercato di dare...
O Conquistador, Conquistado di Manoel de Oliveira
Ironico, leggero, coinciso e con un profondissimo senso della Storia, il corto di De Oliveira ci mostra la una piazza di Guemaires con una statua in bronzo del fondatore della città e conquistatore del Portogallo che ora è conquistato dai turisti che lo circondano....
*mentre facciamo una passeggiata attraverso la Guimarães dei giorni d'oggi (la città su cui si è fondato il Portogallo), ci chiediamo: "Quale storie ha da dirci?" La risposta a questa domanda arriva dalle voci distinte di quattro registi, di visioni uniche del cinema, partecipando insieme a un film unico. Le molteplici dimensioni della storia provengono sia dalla finzione che dalla realtà: le cose non sono quello che sembrare a prima vista
Animals (Spagna, 2012) di Marçal Forés, 2012
Una scuola bilingue ispano\inglese, Pal, un giovane ragazzo parla ancora coll'orsacchiotto (animato benissimo in animatronics). Un fratello maggiore come unico familiare convivente (nulla ci è dato sapere dei genitori). Un compagno di scuola gay dichiarato. Il fascino esercitato da un nuovo compagno di scuola caucasico ma dal nome giapponese (io da quello lì mi farei stuprare volentieri, dice il ragazzo gay dichiarato). Un'amica del cuore che aspetta la corte di Pal che forse arriva senza essere davvero consumata solo come compensazione per le prime esperienze omoerotiche. Una misteriosa ragazza che scompare. Il nuovo arrivato al quale Pal dà il primo bacio e ci va a letto (presumiamo). Animali morti. Uccisi da armi da fuoco. Investiti.
Una festa di Halloween che sembra trasformarsi in una carneficina ma per fortuna no (per quella è bastato il film di Takashi Miike).
Il tentativo di liberarsi dell'orsacchiotto, legandolo a un sasso e gettandolo in fondo la lago.
La morte trovata nel tentativo di recuperare l'orsacchiotto.
Il lieto fine dove tutti i morti, animali, umani (ragazza misteriosa scomparsa compresa) e orsacchiotto camminano felici come in una passerella finale da rivista d'altri tempi verso il tunnel (dell'autostrada).
Il ragazzo dal nome giapponese fittizio (lo spiega il regista al Q & A dopo la proiezione) che forse perchè con manie autolesioniste (si incide ferite col coltello, pratica alla quale inizia anche il protagonista, oltre che fargli scorpire le gioie del sesso) vede i morti orsacchiotto compreso mentre il fratello di Pal (che fa il poliziotto) no.
Un film intrigante, interessante da vedere, vagamente rassomigliante a Donnie Darko (ma non al punto da presentarcelo tale, vero specchietto per le allodole). Un protagonista bello e bravo, come anche gli (le) altri(e) interpreti.
Vagamente misogino (delle due donne una muore, l'altra è indagatrice e chiede mille perché, e piange perché vede Pal col nuovo arrivato).
L'omosessualità come scoperta di sè mai davvero affermata e vissuta fino in fondo. Il ragazzo dichiarato è single e Pal muore prima di poter capire qual è la sua strada.
Quando chiedo al regista se si accorge di aver fatto un film dove l'omosessualità è sempre coniugata col liminale, l'eccentrico, lo straordinario, un gruppo di studenti (la proiezione era loro dedicata) applaude.
La risposta più sconcertante il regista me la dà in privato. Mi dice che per lui la morte non è una cosa negativa. Gli dico che per me lo è. Mi esorta a non averne paura e che la vita è tutta una preparazione alla morte. Ma anche no, aggiungo io.
Lui insiste e ribadisce che va bene sia se capita a 18 che a 80 anni.
Però so sempre i froci, problematici e tremebondi, a morire. Eccheccazzo!
KID (Belgio, 2012) di Fien Troch
Kid, Billy e la madre. Ma anche la zia.
Debiti.
Minacce.
La donna, sola, viene uccisa con un colpo di pistola.
Il figlio grande guarda dalla finestra. Il più piccolo non si capacita. Vanno a vivere dalla zia. Due genitori improvvisati e naïf.
Poi arriva il padre a prenderseli. Kid apre la porta della vettura in corsa e si riunisce alla madre.
Il secondo film della giornata che presenta la morte come soluzione concreto-simbolica.
La situazione è drammatica sì, ma si può lottare almeno un poco prima di rassegnarsi in maniera così definitiva.
Manca una speranza che non è denuncia dell'assenza della società o delle istituzioni, ma un pessimismo cosmico, un orizzonte etico che non si distacca affatto da quello verghiano. Solo che Verga era uomo dell'800...
Ma che gli è preso ai cineasti europei?
O è il criterio selettivo di Müller?
Main dans la Main (Francia, 2012) di Valerie Donzelli
Leggero, leggiadro, capace di ricordare il migliore Godard, il tatù più esilarante, con una idea semplice, sorprendente e sviluppata con coerenza e senza forzature e con due interpreti davvero sexy e che ti fa piacere vedere insieme, lui in calzamaglia che ne sottolinea il corpo paccuto lei anche nuda a mostrare un sedere invidiabile e un pelo foltissimo e nero.
Lui patito della danza ma che per mestiere fa tutt'altro, il vetraio, e ha una sorella che coltiva il sogno di diventare ballerina, lei direttrice dell'Opera di Paris. Si incontrano si baciano e da quel momento sono indissolubilmente legati, dove va uno va l'altra, i gesti dell'una sono quelli dell'altro, tranne quando dormono, scopriremo. Lei è legata sentimentalmente a un'altra donna, lui fidanzate non ne ha. Ha una sorella gelosa però. Così a letto dormono in tre, lui lei e l'a donna di lei... Non fanno l'amore, né sesso. Vivono il loro legame con cortese sopportazione. Si trovano davvero solo quando si sciolgono dal legame, quando, liberi di fare quel che vogliono, si trovano davvero. E alla fine lei non gli dice ti amo o voglio restare per sempre con te ma un molto più profondo e radicato voglio morire con te. A morire davvero sono la centenaria parente di lui e la (ex) donna di lei, malata di fegato. Memorabile la scena in cui la ex indica al giovane ragazzo un ménage a tre perché certe coppie sono incapaci di separarsi.
Ah già. Non ve l'avevo detto?
Lui è più giovane di lei di una quindicina di anni almeno...
Le sac de Farine
(Belgio, Marocco, Francia, 2012)
di Kadija Leclere
La storia non è delle più felici. La piccola Sarah viene rapita dal Belgio e riportata in Marocco, in un piccolo paese nel bel mezzo dei monti dell’Atlas, dal suo papà cattivo che poi non vedremo più nel film. Costretta a studiare ricamo e maglia invece che storia e geografia che sono materie per maschi Sarah cresce e, diventata una giovane ragazza, sogna di ritornare in Belgio. Indifferente alle aspirazioni del luogo, di diventare moglie e madre, si invaghisce di Nari un bellissimo coetaneo che dissidente politico (siamo nel 1984 nel bel mezzo della Rivolta di Awbach, ma questo lo capisce giusto chi conosce la storia del Marocco...,) aiuta solo in nome del desiderio di lui. Spera che la madre di lui venga a chiederla in sposa come si usa delle quelle parti ma così nona accade. Mentre lo zio si lamenta di doverla mantenere visto che il cognato non gli manda un soldo, Sarah prima cerca dei lavori per dimostrare di non essere un peso, poi per ritornare in Belgio. Accetta così una proposta di matrimonio combinato che la riporta in Belgio.
Unica nota interessante di un film altrimenti a rischi di razzismo e di oleografia populista e da socialismo utopistico è la parabola del film. Sarah viene strappata dal contesto in cui vive nel momento in cui sembra esservi davvero adattata prima quello belga e poi quello marocchino bella l'ultima inquadratura - una soggettiva della ragazza che da dietro un camion che la porta via lontano da lì e dal ragazzo bellissimo che è venuto a salutarla per l'ultima volta.