Negli anni settanta si facevano ancora 30 giorni di ferie e anche la mia famiglia, mia mamma Mirella, mia nonna Rosa, mia sorella Silvia e me, non faceva eccezione. Alberghi convenzionati col dopolavoro ferroviario, biglietti chilometrici gratuiti (mamma lavorava alle Ferrovie dello Stato, servizio Impianti Elettrici), la famiglia Di Silvestro-Paesano non si faceva mancare nulla, nemmeno il lusso di cambiare albergo, appena arrivati a Riccione perchè non piaceva la stanza (o proprio l'albergo?), non il lusso del denaro, ma quello dato dall'onestà di dire questo posto non mi piace è diverso da quello che sembrava sul dépliant.
Ogni anno, a Luglio, si stava via un mese e il momento migliore per me era sempre il rientro a casa, il lampadario tubolare verde dell'ingresso, l'odore caratteristico di casa, che in un mese non avevi respirato abbastanza a lungo da poterlo riconsocere appena riprendevi ad annusarlo, la mia scrivania, cameretta, libreria, da risistemare, cambiando posizione e disposizione di libri, datari, lampada, tagliacarte.
Se mia madre lo avesse saputo che il momento migliore della vacanza per me era il rientro non avrebbe speso tutti quei soldi per portarmici.
Ogni anno svuotavamo mazza casa, riempivamo un baule, quelli di una volta, su due tonalità di verde, con le borchie rinforzate agli angoli, lo spedivamo giorni prima all'albergo (sempre tramite le ferrovie) assieme alla carrozzina per mia sorella (che aveva 4 anni nel 1973) e poi partivamo pure noi.
Non so di cosa riempissero il baule, so solo che ogni anno era talmente pieno che né mamma né nonna erano in grado di chiuderlo. Si sforzavano all'inverosimile, nonna facendo una smorfia da Cammela mancata mamma con un po' di convinzione in meno era cardiopatica e gli sforzi davano un senso concreto alla sua ipocondria. Per quanto provassero desistevano sempre e, rassegnate, guardandosi negli occhi, con la stessa solennità con cui puoi decidere di impegnarti le lenzuola per fronteggiare una spesa imprevista, ricorrevano all'ultima ratio, che poi, a ben vedere, era stata l'unica opzione sin dall'inizio.
Chiamiamo Teresa? chiedeva mamma e nonna concordava chiamiamo Teresa.
Teresa era (è) la figlia dei vicini di casa (quelli del piano di sopra) una giovane ragazza, all'epoca studentessa di medicina, oggi medico affermato (lavora al San Camillo), dalla stazza generosa e abbondante, alla quale, tra mille profferte di scuse e inchini, mamma e nonna chiedevano umilmente l'intervento. Teresa scendeva le scale, percorreva i lunghi corridoi di casa nostra fino alla stanza da letto (quella più interna all'abitazione), si avvicinava al baule ancora aperto, ci si sedeva sopra e mamma e nonna potevano chiuderlo agevolmente.
Teresa, la faccia mesta, di chi si vergogna della propria stazza, scendeva dal baule, ripercorreva i corridoi, risaliva le scale e tornava a casa sua.
Questo siparietto si ripeteva ogni anno, era il nostro piccolo rituale che significava stavamo davvero per partire in vacanza.
Un matriarcato alla buona, senza rivendicazioni di principio ma che funzionava nei fatti. Niente uomini forzuti in giro per casa a spargere i loro ormoni in una famiglia di due donne e due bambini... Solidarietà tra donne, intesa muliebre, ne sono cresciuto avvezzo.
Non ricordo come facessero nonna e mamma al rientro, quando dopo un mese di albergo e mare e di cianfrusaglie acquistate, si presentava nuovamente la necessità di chiudere il baule.
Magari chiamavano Teresa per telefono... e poi bastava poggiare la cornetta sul baule...
15 luglio 2010
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