Esemplare e nordico People in White (Finlandia-Olanda, 2011) di Tellervo Kalleinen, Oliver Kochta-Kalleine el qale un gruppo di pazienti psichiatrici e di psicoterapeuti si invertono nei ruoli e raccontano le terapie giuste e sbagliate che hanno subito negli ultimi 40 anni. Tra elettroshock e abusi sessuali passando anche per terapie esemplari. Un film da vedere, per non dimenticare e imparare che la psicoterapia è per perone coraggiose.
Il pregio maggiore del film di Faenza Someday This Pain Will Be Useful to You (Usa-Italia, 2011) è che non sembra un suo film. Anche se la direzione degli attori non è eccelsa (e questo è sempre stato uno dei suoi maggiori difetti) a meno che non si tratti di mostri di bravura come Ellen Burstyin o Lucy Liu (meno bene per Marcia Gay Harden) è difficile anche per Faenza fare orrori con un racconto (tratto dal romanzo omonimo di Peter Cmeron) splendido che vede il diciassettenne James Svanck alle prese con la vita, con dei genitori divorziati e ricchissimi e dove l'opzione gay etero è vissuta alla pari e dunque non esplicitata (perché non fa differenza) anche se nella prestazione del programma del festival si legge un ignobile in crisi di identità anche sessuale che possa morire chi lo ha scritto.
Un film da vedere e un libro da leggere.
How To die In Horegon (USA, 2011) di Peter Richardson viene presentato come un documentario sulla legge che nello stato dell'Oregon permette il suicidio assistito per i malati terminali. Inizia mostrando le vere immagini di chi decide di prendere una dose mortale di un farmaco, assistito da dei volontari (che ti chiedono se hai cambiato idea e se sai cosa ti faranno i farmaci che stai per assumere, ma si trasforma, man mano che procede nella sua inesorabile interminabile lunghezza di 107 minuti nella (involontaria?) spettacolarizzazione della morte e della malattia, soprattutto soffermandosi sulla fine di una giovane donna di 54 anni colpita da un recidivo cancro al fegato. Mentre all'inizio le morti possono essere riprese perché non consociamo le persone la morte di questa donna viene ripresa da lontano. La mdp rimane fuori della casa, solo il microfono registra la sua voce, il suo trapasso sereno e morbido dalla coscienza all'incoscienza, al coma, alla morte. Per quanto si rimanga coinvolti dalle vicissitudini di chi si avvale della morte assistita, c'è un che di osceno nel fare spettacolo della sofferenza di questa donna, e la sua generosità, nel regalarci la sua intimità non serve la causa di sostenere la legge (nel documentario si vede la campagna, vinta, per far approvare una legge simile nello stato di Washington DC) ma solo la morbosa curiosità di edere come una persona decide di darsi una morte dignitosa. Una diversa impostazione avrebbe giovato a un documentario che,pure, racconta molte contraddizioni di una legge giusta (come quella dello stato dell'Oregon che decide di non sostenere le cure a un barbone malato di cancro alla prostata ma di pagargli il suicidio assistito...). Certo, sapere alla fine che la donna malata di cancro ha avuto la morte dignitosa che cercava, mi fa piacere, ma rimane un che di osceno nella sua morte mostrata, raccontata, per la curiosità del pubblico.
L'equivoco epistemologico di Ostende (Argentina, 2011) di Laura Citarella è che la mdp sappia vedere di per sé. Per questo usa estenuanti piani sequenza, cioè, macchina fissa, mentre la sua protagonista (l'inespressiva Laura Parede) si spoglia o si veste in spiaggia, interminabili inquadrature fuori fuoco, sempre sostenute dalla stessa musica, a sottolineare che sta succedendo qualcosa (ma non succede mai niente) mentre in realtà è l'occhio del narratore (della narratrice) a dirci qualcosa. E quelli di Laura Citarella non solo sono ciechi ma fastidiosamente tronfi. Un film inutile, odioso, da bruciare al rogo possibilmente insieme alla regista e a chi ha scelto questo deliro per rompere i coglioni al pubblico. E che alla fine le due ragazze viste in compagnia di un vecchio vengano da questi uccise, ma lo sappiamo solo noi spettatori, non la protagonista, non aggiunge nulla a un film che non ha nulla da dire oltre che affermare la presunzione di chi lo ha fatto (e lo ha scelto per il Festival).
2 novembre 2011
L'insostenibile leggerezza del genere (conematografico): i film a tematica gay al Festival Internazionale del film di Roma (1)
Se i film a tematica omosessuale siano un genere a sé e se, comunque sia, in quanto tali, servano a qualcosa, o a qualcuno, me lo sono sempre chiesto, al punto tale da organizzare una tavola rotonda al festival di cinema omosessuale Omovies di Napoli nel dicembre del 2010.
Al Festival internazionale del film di roma Weekend (Gran Bretagna, 2011) di Andrew Haigh è stato presentato come un film capolavoro dell'omosessualità, che il Festival è orgoglioso di presentare in Italia, dopo un anno di alto tasso omofobico del Paese, un film che, altrimenti, non sarebbe mai approdato nelle nostre sale.
Purtroppo la storia raccontata nel film non si capisce a quale pubblico si rivolga. Se a un pubblico omosessuale (maschile) che le cose dette nel film già le conosce perché le vive in prima persona o a un pubblico di etero gayfriendly ai quali il film non arriva perché i punti più delicati dei problemi dei gay sono purtroppo detti in estenuanti dialoghi e non raccontati, mostrati con fatti concreti che capitano ai protagonisti, oppure a un pubblico di omofobi i quali non cambieranno certo idea vedendo due uomini che si spompinano, tirano di coca e hanno la maturità sentimentale di due adolescenti.
Alla fine, nell'assenza del lieto fine il film non esce nemmeno dal cliché rassicurante per il mainstream coi quali TUTTI i film non smaccatamente made for gay approdano in sala nei quali, cioè i protagonisti sono soli, hanno una storia sessuale e non sentimentale, e se è sentimentale è non felice, o interrotta (come nel caso di Weekend) di modo che i gay possano essere visti non come pericolosi eversivi dell'eterosistema (sessismo, maschilismo, patriarcato, capitalismo, liberismo, razzismo) ma come innocui freaks che sono umani perché, toh, anche loro soffrono.
Un film che nel raccontare dell'ennesimo problema a dichiararsi gay al mondo, al mantenere una relazione fissa perché spazzati via dall'altrui promiscuità, avrebbe avuto senso 20 anni fa ma che oggi non racconta più davvero la vita e il vissuto dei gay i cui problemi non sono più, o non solo, quelli di accettazione, di non poter uscire per strada mano nella mano senza che qualcuno dica loro a froci, visto che la comunità gay in tutto l'occidente è cresciuta, si è stabilizzata e ha messo su famiglie con bambini propri, avuti come mariti etero o all'interno della coppia gay.
Un film del genere piace a quei gay (solo ed esclusivamente uomini perché le donne non contano per gli etero figuriamoci per i gay) che non hanno intenzione alcuna di andare in giro a militante ma vogliono borghesemente avere il marito, l'amante, la casa in campagna e qualche pompino al locale gay il venerdì sera. Weekend fa più danni di quanto non denunci, legittimi o, semplicemente, riscatti le persone omosessuali raccontando una storia degna di essere vista sul grande schermo come la storia tra due persone e non tra due gay. Purtroppo rimanendo nell'ambito del film a tematica, sembra che basti un bacio tra due uomini per fare di una mediocre commedia un bel film. Ma non è così. Una storia che ha la vocazione del cortometraggio e il respiro corto per essere un lungometraggio.
Mentre ero in fila per il film successivo, una ragazza, una giovane attrice, molto brava, che ho visto recitare rimanendone colpito, ha fatto una domanda terribile, senza volerlo, mentre constatava la bravura dei due interpreti del film si è chiesta saranno gay? Spiegando che solo due gay sono in grado di portare in scena due personaggi così credibili.
E se anche una giovane donna, evidentemente etero, attrice, e pure brava, si pone una domanda cosi illogica prima ancora che piena di pregiudizio,vuol dire che il discorso politico che noi gay dobbiamo fare è davvero latro da quello che questi film sembrano imbastire. It's a long way to Tipperary...
Quello che ci insegna Magic Valley (Usa, 2011) di Jaffe Zinn, un racconto lentissimo ma progressivo che mostra l'alienazione di ogni essere umano e non solo (ci sono i salmoni morti...) è che non basta studiare cinema per diventare regista, bisogna anche vedere tanti film e Jeff Zinn sembra non averne decantato uno proponendoci una storia che pretende vergine mentre è ormai talmente sputtanata da ridurre il film a un continuo trailer di altre pellicole. Quel che Magic Valley dice è profondamente vero e terribile: un ragazzo uccide una ragazza probabilmente a scopo sessuale (ma questo il film non lo dice e, dopo tutto, poco cambia rispetto l'omicidio) ma nessuno rispetta più alcuna forma di vita nemmeno i due ragazzini che ritrovano il cadavere e pensano di seppellirlo non per pietà ma perché è quello che si fa in questi casi. Lo conferma l'immagine finale del pesce appena pescato con le branchie oscenamente dilatate per l'asfissia mentre gli esplode un petardo in bocca messogli dagli stessi due bambini (bellissimi e ariani) ma quell'immagine rimanda alla crudeltà del regista di uccidere un pesce per fare un film e tutto il messaggio di denuncia è viziato da un estetismo che prevale sull'etica. Tutto nel film rimanda involontariamente ad altri film più per ignavia del regista che pretende uno sguardo vergine chiedendo allo spettatore di dimenticarsi della sua storia di spettatore, di dimenticare gli altri film che hanno già raccontato questa storia.
Un Cuento chino (Argentina-Spagna, 2011) di Sebastián Borensztein è una commedia che fa ridere e che mostra e dimostra come non rimanere fissati a un evento che ci ha segnato la vita ma andare avanti e vivere, anche se la tua futura sposa è morta investita da una mucca piovuta dal cielo,o tuo padre è morto di crepacuore quando tu sei andato in guerra come immigrato italiano in argentina contro l'Inghilterra. Memorabile. Uno dei veri film da festival di questa sesta edizione.
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