Questa è la sequenza di apertura di uno dei film cui sono più legato Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. Nella scena è descritta un'assemblea politica universitaria nell'America contestataria della fine degli anni '60.
Dalla scena potete farvi un po' l'idea di quel che è successo lunedì sera all'aula 6 della facoltà di Economia de La Sapienza a Roma dove si è riunita l'assemblea di We have a dream. Al posto dell'opposizione neri (o "negri" come malamente doppiato in italiano, Antonioni girò il film in inglese) bianchi, ieri sera c'è stata quella, netta, tra universitari e... tutti gli altri!!!
Dovevamo decidere se partecipare o no alla manif di giovedì, quella che doveva essere contro l'omofobia e che è diventata contro tutti i razzismi e l'intolleranza, voluta da Alemmano (sindaco di Roma) Zingaretti (presidente della provincia di Roma) e Marazzo (presidente della Regione Lazio) alla quale ha aderito il Vicariato (sì, quello che ha rifiutato il funerale cattolico a Welby, è contrario all'istallazione di distributori di profilattici nelle scuole, che considera il matrimonio civile una unione irregolare ed è contrario alle unioni civili perché considerate una battaglia ideologica della quale non si sente il bisogno perché dall'istituzione delle unioni civili non scaturirà nessun effetto concreto per i cittadini fonte Corriere della sera del 16/12/07) e anche Il popolo di Roma organizzazione a rischio eversione visto che scrive nel suo programma politico: (...)siamo favorevoli a “rivoluzionare” anche l’attuale Costituzione, che per noi non è né un libro sacro, né qualcosa di immutabile.
Come WHAD (acronimo di We Have A Dream) avevamo deciso di non andare per non darci la fisionomia di associazione e perché troppo la manif era troppo istituzionalizzata a di andarci solo come singoli. Avevamo deciso di non fare una fiaccolata venerdì per non sovrapporci e non metterci in competizione, ma poi, sapute le ultime adesioni, ci volevamo chiedere se partecipare o no e poi come partecipare.
Ma siamo stati sommersi da una serie di interventi, per la maggior parte provenienti da partecipanti all'assemblea di area studentesca, che hanno iniziato a dire:
che abbiamo una mentalità istituzionalizzata,
che le istituzioni fanno schifo,
che la costituzione fa schifo perché non riconosce i diritti delle persone intersessuali (!!!).
Ci hanno sgridato per aver ringraziato Napolitano,
per aver ringraziato le forze dell'ordine a Montecitorio,
perché qualcuno aveva ispirazioni troppo borghesi e voleva sposarsi e che forse il matrimonio non era proprio il massimo ideale (vi ricorda qualcuno?).
Insomma mentre noi valevamo fare una discussione organizzativo/pratica, alla fine, anche alzando la voce, ci hanno chiesto come potete in quanto gay marciare al fianco dei fascisti.
Molte delle cose dette erano condivisibili (altre no) ma era il modo di dirlo, la retorica usata, il frasario impiegato e la spocchia che caratterizza tutti quando siamo giovani (io mi sono sentito dire che, visto che secondo loro non sono abbastanza rivoluzionario, forse è così perché sono un disilluso; un altro ragazzo mi ha detto, durante la discussione, va beh te la sei cavata visto che è tardi e dobbiamo andare) che dava fastidio e mi hanno provocato una delusione e una rabbia incontrollate.
Delusione che i giovani di sinistra di oggi siano così pieni di luogo comuni, così conformisti e, in ultima analisi, così reazionari a-scientifici e, dunque, fascisti, come i compagni di autonomia operaia che frequentavo quando all'università c'ero io (dal 1986 al 1991).
Rabbia perché, alla fine, aveva perso solo tempo a confrontarci coi dogmatismi già individuati come tali nei film di 40 anni fa.
Così quando una parte di assemblea, quando qualcuno ha interrotto qualcun altro che stava parlando solo perché non era d'accordo con lui, invece di censurare chi aveva interrotto, ha applaudito in suo favore, io mi sono scazzato, ho citato la battuta di Adam in Zabriskie Point e me ne sono andato.
O meglio, ho minacciato di andarmene, seguito da qualche compagno e compagna coi quali mi sono calmato, complici un bicchiere di vino e due tiri di joint, e sono rimasto, FINO ALLE 2 DEL MATTINO, senza risolvere nulla se non sentire una contrapposizione, senza sentirmi invaso da un pensiero così antagonista che l'unica conseguenza coerente è quella della sovversione che non mi vede d'accordo e che, soprattutto, non è nelle corde del movimento WHAD che non è antagonista.
Intanto si perdono gli scopi politici in nome di un idealismo e di un dogmatismo (nudi e puri) che non serve a nessuno.
Morale della favola whad non ci sarà alla manif di domani e solo a titolo personale qualcuno di noi vi parteciperà con un dress code ben preciso e stabilito e andremo a fare controinformazione, pacifica, democratica ma incazzosa.
Ci ho messo due giorni per scrivere questo post perché ho dovuto smaltire la rabbia e digerire l'esperienza.
Mi è venuto in aiuto Pasolini e non solo quello della poesia
Valle Giulia - Il Pci ai giovani!! ma anche quello de Il discorso dei capelli che vi voglio riproporre:
La prima volta che ho visto i capelloni, è stato a Praga. Nella hall dell'albergo dove alloggiavo sono entrati due giovani stranieri, con i capelli lunghi fino alle spalle. Sono passati attraverso la hall, hanno raggiunto un angolo un po' appartato e si sono seduti a un tavolo. Sono rimasti lì seduti per una mezzoretta, osservati dai clienti, tra cui io; poi se ne sono andati. Sia passando attraverso la gente ammassata nella hall, sia stando seduti nel loro angolo appartato, i due non hanno detto parola (forse - benché non lo ricordi - si sono bisbigliati qualcosa tra loro: ma, suppongo, qualcosa di strettamente pratico, inespressivo).
Essi, infatti, in quella particolare situazione - che era del tutto pubblica, o sociale, e, starei per dire, ufficiale - non avevano affatto bisogno di parlare. Il loro silenzio era rigorosamente funzionale. E lo era semplicemente, perché la parola era superflua. I due, infatti, usavano per comunicare con gli astanti, con gli osservatori - coi loro fratelli di quel momento - un altro linguaggio che quello formato da parole.
Ciò che sostituiva il tradizionale linguaggio verbale, rendendolo superfluo - e trovando del resto immediata collocazione nell'ampio dominio dei «segni», nell'ambito ciò della semiologia - era il linguaggio dei loro capelli.
Si trattava di un unico segno - appunto la lunghezza dei loro capelli cadenti sulle spalle - in cui erano concentrati tutti i possibili segni di un linguaggio articolato Qual era il senso del loro messaggio silenzioso ed esclusivamente fisico?
Era questo: «Noi siamo due Capelloni. Apparteniamo a una nuova categoria umana che sta facendo la comparsa nel mondo in questi giorni, che ha il suo centro in America e che, in provincia (come per esempio anzi, soprattutto - qui a Praga) è ignorata. Noi siamo dunque per voi una Apparizione. Esercitiamo il nostro apostolato, già pieni di un sapere che ci colma e ci esaurisce totalmente. Non abbiamo nulla da aggiungere oralmente e razionalmente a ciò che fisicamente e ontologicamente dicono i nostri capelli. Il sapere che ci riempie, anche per tramite del nostro apostolato, apparterrà un giorno anche a voi. Per ora è una Novità, una grande Novità, che crea nel mondo, con lo scandalo, un'attesa: la quale non verrà tradita. I borghesi fanno bene a guardarci con odio e terrore, perché ciò in cui consiste la lunghezza dei nostri capelli li contesta in assoluto. Ma non ci prendano per della gente maleducata e selvaggia: noi siamo ben consapevoli della nostra responsabilità. Noi non vi guardiamo, stiamo
sulle nostre. Fate così anche voi, e attendete gli Eventi».
Io fui destinatario di questa comunicazione, e fui anche subito in grado di decifrarla: quel linguaggio privo di lessico, di grammatica e di sintassi, poteva essere appreso immediatamente, anche perché, semiologicamente parlando, altro non era che una forma di quel
«linguaggio della presenza fisica» che da sempre gli uomini sono in grado di usare.
Capii, e provai una immediata antipatia per quei due. Poi dovetti rimangiarmi l'antipatia, e difendere i capelloni dagli attacchi della polizia e dei fascisti: fui naturalmente, per principio, dalla parte del Living Theatre, dei Beats ecc.: e il principio che mi faceva stare
dalla loro parte era un principio rigorosamente democratico.
I capelloni diventarono abbastanza numerosi - come i primi cristiani: ma continuavano a essere misteriosamente silenziosi; i loro capelli lunghi erano il loro solo e vero linguaggio, e poco importava aggiungervi altro. Il loro parlare coincideva col loro essere. L'ineffabilità era l'ars retorica della loro protesta.
Cosa dicevano, col linguaggio inarticolato consistente nel segno monolitico dei capelli, i capelloni nel 66-67? Dicevano questo: «La civiltà consumistica ci ha nauseati. Noi protestiamo in modo radicale. Creiamo un anticorpo a tale civiltà, attraverso il rifiuto. Tutto pareva andare per il meglio, eh? La nostra generazione doveva essere una generazione di integrati? Ed ecco invece come si mettono in realtà le cose. Noi opponiamo la follia a un destino di executives. Creiamo nuovi valori religiosi nell'entropia borghese, proprio nel momento in cui stava diventando perfettamente laica ed edonistica. Lo facciamo con un clamore e una violenza rivoluzionaria (violenza di non-violenti!) perché la nostra critica verso la nostra società è totale e intransigente».
Non credo che, se interrogati secondo il sistema tradizionale del linguaggio verbale, essi sarebbero stati in grado di esprimere in modo cosi articolato l'assunto dei loro capelli: fatto sta che era questo che essi in sostanza esprimevano. Quanto a me, benché sospettassi fin da allora che il loro «sistema di segni» fosse prodotto di una sottocultura di protesta che si opponeva a una sottocultura di potere, e che la loro rivoluzione non marxista fosse sospetta, continuai per un pezzo a essere dalla loro parte, assumendoli almeno nell'elemento anarchico della mia ideologia.
Il linguaggio di quei capelli, anche se ineffabilmente, esprimeva «cose» di Sinistra. Magari della Nuova Sinistra, nata dentro l'universo borghese (in una dialettica creata forse artificialmente da quella Mente che regola, al di fuori della coscienza dei Poteri particolari e storici, il destino della Borghesia).
Venne il 1968. I capelloni furono assorbiti dal Movimento Studentesco; sventolarono con le bandiere rosse sulle barricate. Il loro linguaggio esprimeva sempre più «cose» di Sinistra. (Che Guevara era capellone ecc.).
Nel 1969 - con la strage di Milano, la Mafia, gli emissari dei colonnelli greci, la complicità dei Ministri, la trama nera, i provocatori - i capelloni si erano enormemente diffusi: benché non fossero ancora numericamente la maggioranza, lo erano però per il peso ideologico che essi avevano assunto. Ora i capelloni non erano più silenziosi: non delegavano al sistema segnico dei loro capelli la loro intera capacità comunicativa ed espressiva. Al contrario, la presenza fisica dei capelli era, in certo modo, declassata a funzione distintiva. Era tornato in funzione l'uso tradizionale del linguaggio verbale. E non dico verbale per puro caso. Anzi, lo sottolineo. Si è parlato tanto dal '68 al'70, tanto, che per un pezzo se ne potrà fare a meno: si è dato fondo alla verbalità, e il verbalismo è stata la nuova ars retorica della rivoluzione (gauchismo, malattia verbale del marxismo!). Benché i capelli - riassorbiti nella furia verbale - non parlassero più autonomamente ai destinatari frastornati, io trovai tuttavia la forza di acuire le mie capacità decodificatrici, e, nel fracasso, cercai di prestare ascolto al discorso silenzioso, evidentemente non interrotto, di quei capelli sempre più lunghi.
Cosa dicevano, essi, ora? Dicevano: «Sì, è vero, diciamo cose di Sinistra; il nostro senso - benché puramente fiancheggiatore del senso dei messaggi verbali - è un senso di Sinistra... Ma... Ma...». II discorso dei capelli lunghi si fermava qui: lo dovevo integrare da solo. Con quel «ma» essi volevano evidentemente dire due cose:
1) «La nostra ineffabilità si rivela sempre più di tipo irrazionalistico e pragmatico: la preaminenza che noi silenziosamente attribuiamo all'azione è di carattere sottoculturale, e quindi sostanzialmente di destra»;
2) «Noi siamo stati adottati anche dai provocatori fascisti, che si mescolano ai rivoluzionari verbali (Il verbalismo può portare però anche all'azione, soprattutto quando la mitizza): e costituiamo una maschera perfetta, non solo dal punto di vista fisico - il nostro disordinato fluire e ondeggiare tende a omologare tutte le facce - ma anche dal punto di vista culturale: infatti una sottocultura di Destra può benissimo essere confusa con una sottocultura di Sinistra».
Insomma capii che il linguaggio dei capelli lunghi non esprimeva piú «cose» di Sinistra, ma esprimeva qualcosa di equivoco, Destra-Sinistra, che rendeva possibile la presenza dei provocatori. Una diecina d'anni fa, pensavo, tra noi della generazione precedente, un provocatore era quasi inconcepibile (se non a patto che fosse un grandissimo attore): infatti la sua sottocultura si sarebbe distinta, anche fisicamente, dalla nostra cultura. L'avremmo conosciuto dagli occhi, dal naso, dai capelli! L'avremmo subito smascherato, e gli avremmo dato subito la lezione che meritava. Ora questo non è più possibile. Nessuno mai al mondo potrebbe distinguere dalla presenza fisica un rivoluzionario da un provocatore. Destra e Sinistra si sono fisicamente fuse.
Siamo arrivati al 1972. Ero, questo settembre, nella cittadina di Isfahan, nel cuore della Persia. Paese sottosviluppato, come orrendamente si dice, ma, come altrettanto orrendamente si dice, in píeno decollo.
Sull'Isfahan di una diecina di anni fa - una delle più belle città del mondo, se non chissà, la più bella - è nata una Isfahan nuova, moderna e bruttissima. Ma per le sue strade, al lavoro, o a passeggio, verso sera, si vedono i ragazzi che si vedevano in Italia una diecina di anni fa: figli dignitosi e umili, con le loro belle nuche, le loro belle facce limpide sotto i fieri ciuffi innocenti. Ed ecco che una sera, camminando per la strada principale, vidi, tra tutti quei ragazzi antichi, bellissimi e pieni dell'antica dignità umana, due esseri mostruosi: non erano proprio dei capelloni, ma i loro capelli erano tagliati all'europea, lunghi di dietro, corti sulla fronte, resi stopposi dal tiraggio, appiccicati artificialmente intorno al viso con
due laidi ciuffetti sopra le orecchie.
Che cosa dicevano questi loro capelli? Dicevano: «Noi non apparteniarno al numero di questi morti di fame, di questi poveracci sottosviluppati, rimasti indietro alle età barbariche. Noi siamo impiegati di banca, studenti, figli di gente arricchita che lavora nelle società petrolifere; conosciamo l'Europa, abbiamo letto. Noi siamo dei borghesi: ed ecco qui i nostri capelli lunghi che testimoniano la nostra modernità internazionale di poveri privilegiati ».
Quei capelli lunghi alludevano dunque a «cose» di Destra. Il ciclo si è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all'opposizione e l'ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto pazientemente una moda, che, se non si pu proprio dire fascista nel senso classico della parola, è però di una «estrema destra» reale.
Concludo amaramente. Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendosi laidi come le vecchie puttane di una ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre. Sono saltate fuori le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali, da anarchici fasulli, da impiegati buffoni, da Azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da mercenani, da imbroglioni, da benpensanti teppisti. Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri - che sono la storia in evoluzione e la cultura precedente - alzando contro di essi una barriera insormontabile, ha finito con l'isolarli, impedendo loro, coi loro padri, un rapporto dialettico. Ora, solo attraverso tale rapporto dialettico - sia pur drammatico ed estremizzato - essi avrebbero potuto avere reale coscienza storica di sé, e andare avanti, «superare» i padri. Invece
l'isolamento in cui si sono chiusi - come in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioventù - li ha tenuti fermi alla loro insopprimibile realtà storica: e ciò ha implicato - fatalmente - un regresso. Essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre.
Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le «cose» della televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere.
Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani, assomigliano sempre più alla faccia di Merlino. La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà. È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all'ordine degradante dell'orda.
Contro i capelli lunghi Corriere della Sera, 7 gennaio 1973 (poi ripubblicato in Scritti corsari con il titolo Il ‘discorso’ dei capelli").
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