e mentre quel porco di Than Shwe continua a uccidere due note e qualche link per sapere qualche cosa sulla Birmania. Fino a qualche tempo fa per me la Birmania era famosa per il titolo di un film meraviglioso di Kon Ichikawa L'arpa Birmana che vi consiglio di vedere.
La Birmania vive sotto una dittatura militare dalla fine degli anni 80, ma nessuno se ne impipa, né la scimmia che comanda gli Stati Uniti (con tutto il rispetto per le scimmie) né il Vaticano preoccupato più di dire agli Italiani come comportarsi anche nell'intimità delle lenzuola... D'altronde perché dovrebbe in Birmania non sono mica cattolici... Io, per quel che conta la mia opinione, avrei già inviato truppe Onu nello stato di Birmania mostrando in mondovisione come gli abitanti del pianeta Terra difendono i diritti universali dell'uomo (ma a ben pensarci sono troppi gli stati in cui l'Onu dovrebbe andare...). Invece mi tocca di vedere i nostri giornalisti fare le facce tristi e parlare di posti nomi e città di cui fino a due giorni prima non si erano mai occupati. Posto anche due articoli del manifesto che ci raccontano le ...amenità che succedono in quel di Birmania (o come diavolo si chiama ora... Ma voi lo sapevate che ha cambiato ufficialmente nome in Myanmar? nel 1989!? mica ieri!!!).
Spesso la Birmania è definito un paese isolato: ed è verissimo, se si guarda al sistema culturale proposto dalle dittature militari fin dal 1962: ma è anche una verità del tutto parziale. La Myanmar della giunta militare è un paese ad alta internazionalizzazione, nel senso che ha un’economia orientata all’export come da classico manuale liberista. Dal 1988 una raffica di privatizzazioni, controllate nel modo più autoritario possibile dal vertice politico amministrativo, ha contraddistinto la nuova economia del paese. L’intreccio di interessi con i paesi vicini si è accompagnato a un forte controllo della popolazione, ma non ha potuto impedire i contatti. Il segno forse più importante è la popolazione birmana residente in Thailandia, paese che confina con la Birmania permigliaia di chilometri di foresta e mare. Un’emigrazine considerevole. Secondo uno studio della Mahidol University di Bangkok, i birmani in Thailandia arrivano a due milioni, in gran parte privi di qualsiasi documento, clandestini profondi che passano la frontiera più volte nelle due direzioni. Alcuni da soli, altri pagando le bande di frontiera. L’esodo è cominciato dopo il 1988. La prima ondata, dopo la repressione dei tremila morti dell’agosto di quell’anno, era fatta di studenti e attivisti in cerca di asilo politico e solidarietà. Erano migliaia, furono in gran parte rifiutati dalle autorità e dovettero accontentarsi di vivere da clandestini, contando sulla solidarietà della società civile. Dopo pochi mesi però cominciò un altro flusso di emigrazione, il passaggio clandestino di lavoratori, disoccupati, donne e giovani che fuggivano da una società senza lavoro e senza respiro. La frontiera tra Thailandia e Birmania è fuori controllo per ampi tratti. Per le donne, forzate all’esodo per lavorare come prostitute, il viaggio era organizzato da protettori, gruppi armati sedicenti politici, trafficanti di droghe e contrabbandieri. Le ragazze birmane furono collocate nei bordelli a basso prezzo, per thailandesi che non potevano permettersi imassage parlour di un certo tono o una escort girl, cantanti da balera in hotel fumosi e poco illuminati. Le ragazze aprirono una falla che tese subito ad allargarsi. Sempre secondo la ricerca della Mahidol University, ci sono oltre 100.000 collaboratrici domestiche birmane in Thailandia. La domanda di servizio è garantita dalla crescita dei ceti di nuovi consumatori urbani, tecnici, intellettuali, imprenditori, commercianti, sui cui acquisti e sul cui stile di vita «simbolicamente lussuoso» si fonda una parte del successo del modello asiatico di sviluppo. La crescita dei consumi dei «New Thai», come amano definirsi, permette l’espansione economica interna senza intaccare il mitico basso costo della forza lavoro thailandese (secondo gli operatori turistici, malgrado la maturità del sistema ricettivo thai, i salari sono ancora tra i più basi del mondo). E una parte non secondaria dei lavoratori a basso reddito delmiracolo thai sono oggi i birmani, emarginati e sotto la costante minaccia dei controlli della polizia e anche, sempre secondo la Mahidol, delle estorsioni in cambio dimancata denuncia, provenienti da varie parti. I birmani di Thailandia provengono in parte rilevante dalle minoranze etniche - Shan, Kachin, Karen e e altre - che abitano le regioni periferiche del paese, dove da decenni guerriglie locali contestano il potere centrale e dove traffici illegali sono una parte importante dell’economia e una minaccia costante ai contadini dei villaggi.Molti hanno sottolineato la scarsa influenza esercitata dai paesi dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean) sulla giunta militare della Birmania, che è un paesemembro. Solo le Filippine hanno chiesto l’espulsione di Myanmar. Ma sono gli intrecci di economie semiclandestine e di complicità che possono rendere comprensibile un comportamento cosi di basso profilo a livello organizzativo e diplomatico. Durante il tsunami, i birmani spazzati via dall’onda nel Sud non furono registrati tra le vittime. Nessuno poteva sapere quanti fossero: fu scelta la formula di dire che erano tornati a casa. La giunta non disse neppure una parola, togliendo dall’imbarazzo tutti. Un esempio dell’intesa di buon vicinato tra paesi, al di là delle posizioni dei governi. Anche la vasta area di economie illegali ai confini è probabilmente sorretta da cordiali scambi. Il generale Maung Aye, classe 1937, numero due del regime, deve parte del suo potere al fatto di essere stato tra gli anni ’70 e ’80 il responsabile dell’esercito nella regione del cosiddetto Triangolo d’Oro (dove si toccano Birmania orientale, Thailandia e Laos), che era allora la zona di maggior produzione mondiale di oppio, materia prima per l’eroina. Le relazioni con i trafficanti gli avrebbero fruttato vantaggi e conoscenze preziose. Forse non solo con i trafficanti: nel Triangolo, ciascuno entro le rispettive frontiere, ci sono anche l’esercito thailandese e quello laotiano. La famiglia del numero 1 della giuntamilitare, Than Shwe, ha lasciato Rangoon il 26 settembre per una visita in Laos ed è felicemente atterrata all’aeroporto di Vientiane.
Renato Novelli il manifesto del 20 sett 2007
Il «progetto Yadana» illustra bene
in quale complicità si possno
trovare le aziende straniere
che investono in Birmania. Forse
dice anche perché le potenze
mondiali sono così restie a sanzioni
economiche contro una giunta militare
che spara su manifestanti...
Yadana significa «tesoro» in birmano,
ed è il nome di un giacimento di
gas nel mare delle Andamane. Per
sfruttarlo, nei primi anni ’90 il governo
militare di Rangoon ha avviato
un progetto ambizioso: costruire un
gasdotto per trasferire il gas naturale
estratto dai giacimenti off-shore delle
Andamane fino in Thailandia, sulla
costa del Golfo del Siam.
Nel 1993 dunque un consorzio tra
Total (francese, ora Total-Fina-Elf) e
Unocal (californiana) ha firmato un
accordo con l’azienda di stato birmana,
Myanma Oil and Gas Enterprise,
che possiede una partecipazione sia
nei pozzi di gas che nel gasdotto: è
stato stimato in un paio di miliardi
di dollari, ed è il maggiore investimento
straniero realizzato in Birmania.
Nell’ottobre ’95 la joint venture
è diventata operativa. Ditte francesi,
giapponesi e italiane hanno partecipato
alla produzione e posa del gasdotto,
impiegando il lavoro di 2.500
persone (di cui solo 300 tecnici stranieri,
il resto era manodopera locale).
Nel 1998 il lavoro era terminato e
poteva cominciare la produzione.
Per la popolazione locale il progetto
Yadana è stata una tragedia. Per
preparare il terreno, nei primi anni
’90 Tatmawdaw («Esercito del popolo
», l’esercito birmano) ha cominciato
a aprire strade nella foresta, evacuare
i villaggi lungo il tracciato del
gasdotto, costruire alloggi per i militari,
eliporti, e una ferrovia. Solo verso
la fine del ’94 un sindacalista birmano
in esilio è venuto a conoscenza,
ed è stato attraverso i racconti dei
profughi che avevano cominciato a
fuggire dalla zona del gasdotto.
Le storie dei fuggiaschi si confermavano
l’un l’altra. A volte un villaggio
era preso di sorpresa, le capanne
rase al suolo, uomini e donne di quasi
ogni età arruolati a forza a lavorare
per l’esercito. A volte un gruppo di
persone cercava di sottrarsi ai lavori
forzati fuggendo. Altri sono scappati
attraverso la foresta senza aspettare
l’arrivo deimilitari, rifugiandosi al di
là del fiume che segna la frontiera
con la Thailandia. Molti hanno raccontato
di stupri e uccisioni.
Storie di brutalità incredibile, che
hanno scosso anche chi conosceva
la violenza della giuntamilitare. Dirigente
di un sindacato nazionale, U
Maung Maung era fuggito da Rangoon
(poi ribattezzata Yangoon) dopo
il massacro del 1988, quando imilitari
hanno represso una rivolta per la
democrazia sparando sulla folla.Nella
seguente ondata di arresti ed esecuzioni
tremila persone furono uccise.
Maung era fuggito in Thailandia,
come molti studenti e attivisti di
quel movimento.
U Maung Maung riassume: tra il
1993 e ’94 circa 150mila persone sono
state strappate ai propri villaggi e
costrette a fuggire, rifugiandosi in
Thailandia: private dei mezzi di sussistenza
e insieme anche della propria
libertà, dignità e vita sociale. Altri
attivisti birmani in esilio si sono
imbattuti nei fuggiaschi del Tenasserim:
come Ka Hsaw Wa, cofondatore
di EarthRights International. Finché
sindacalisti e attivisti per i diritti
umani hanno deciso di chiamare in
causa le aziende occidentali del progetto
Yadana: Total e Unocal.
Nel settembre del 1996 la Federazione
dei Sindacati della Birmania
ha fatto causa alle due aziende petrolifere
presso il tribunale di San Francisco,
California, a nome di un gruppo
di profughi birmani e con il sostegno
del International Labor Rights
Fund, organizzazione statunitense
per i diritti del lavoro. Un’altra causa,
a nome di un altro gruppo di profughi,
è stata presentata da EarthRights
International. In entrambi i casi,
le aziende petrolifere erano accusate
di complicità in omicidi, riduzione
ai lavori forzati, stupri e violenze
commessi dall’esercito birmano nell’ambito
del progetto Yadana.
La sproporzione tra i contendenti
è evidente: dei contadini semianalfabeti
e due multinazionali dal fatturato
superiore al prodotto interno lordo
della Birmania. E però, le testimonianze
raccolte nella giungla sono infine
approdate in tribunale di San
Francisco (anche se la corte ha ritenuto
di potersi occupare solo diUnocal,
non della socia francese Total).
Il caso «Doe versus Unocal» è per
molti aspetti unico. Doe è il nome
collettivo di quindici persone, i profughi
birmani. I rifugiati restano in
una situazione assai precaria nei loro
accampamenti al limitare della
giungla, senza terre da coltivare né
un lavoro e senza uno statuto legale:
per la Thailandia erano immigranti
illegali. Per proteggerli, sono stati nominati
«JaneDoe» o «John Doe» e un
numero. Le loro testimonianze sono
state riprese dalla stampa americana
con grande clamore.
I legali di Unocal ribattevano che
quelle storie, per quanto tragiche,
non provano nulla contro la compagnia,
le accuse erano infondate. Unocal
non nega che i militari birmani
abbiano seminato il terrore nella regione
del gasdotto: però ha sostenuto
che il lavoro forzato non è stato
usato nella posa del gasdotto stesso,
i 2.200 operai che hanno lavorato
per il consorzio erano là per libera
scelta e ricevevano il loro regolare salario;
la compagnia non poteva sapere
cosa facevano i militari, e in ogni
caso non ne era responsabile.
Tra gli atti dell’accusa però diversi
documenti chiamano in causa direttamente
le due aziende petrolifere.
Uno è la «valutazione di rischio»
commissionata da Unocal a una ditta
privata, Control RiskGroup, quando
l’affare Yadana si stava profilando:
il rapporto ricevuto nel maggio
1992 diceva chiaro che il governo birmano
«fa abitualmente uso di lavoro
forzato per costruire strade», e avvertiva:
«Ci sono informazioni credibili
su attacchi dei militari a civili nella
regione, la comunità locale è ormai
terrorizzata». Ci sono poi le deposizioni
di diversi dirigenti della stessa
Unocal: ammettono che, ai termini
del contratto, spettava proprio all’esercito
garantire la sicurezza della
pipeline.
Agli atti è anche la trascrizione di
un incontro tra l’allora presidente di
Unocal John Imre e un gruppo di attivisti
per i diritti umani, all’inizio
del 1995 presso la sede centrale dell’azienda
in California: alle accuse di
coprire la repressione militare aveva
risposto: «Se il lavoro forzato va di
pari passo con i militari, sì, ci sarà
più lavoro forzato. Per ogni minaccia
al gasdotto ci sarà una reazione».
Più tardi, in tribunale, Imre precisò
che non voleva con questo dare la
sua approvazione al lavoro forzato.
Infine, nel 1995, Unocal aveva ricevuto
un altro allarme da un suo consulente,
John Haseman, ex attaché militare
all’ambasciata Usa in Myanmar:
diceva che terribili violazioni
dei diritti umani erano in corso nella
regione meridionale. e «accettando
la versione dei fatti [data dai militari
birmani] Unocal appare nelmigliore
dei casi naive, nel peggiore un partner
volente della situazione».
La difesa di Unocal - «non sapevamo,
non siamo responsabili» infine
ha perso.Nel settembre 2002, e in appello
nel luglio 2003, il tribunale di
San Francisco ha infatti giudicato
che c’erano abbastanza elementi
per rinviare a giudizio la compagnia
petrolifera. E’ un precedente importante,
anche se è finita in un patteggiamento
extragiudiziario che ha evitato
ai rappresentanti di Unocal di
comparire in aula: un risarcimento
per i querelanti e una forte somma
per finanziare opere sociali per le
persone che hanno sofferto a causa
del gasdotto. Per la prima volta
un’azienda multinazionale statunitense
ha dovuto rispondere in tribunale
per complicità nella violazione
di diritti umani. Certo, quei risarcimenti
restano briciole, rispetto al valore
del gas che Total-Unocal continuano
a estrarre dalla Birmania.
Marina Forti il manifesto del 20 sett 2007
Vuoi vedere che dobbiamo "ringraziare" il porco che ha ucciso i monaci (e non sol) per farci venire a sapere cose altrimenti celate in qualche trafiletto, in due righe, tra una tetta e un gluteo dell'isola dei famosi?
ma in che mondo viviamo?
dov'è finita l'informazione vera????
2 commenti:
Bello questo posto, caro Alessandro! Questa è la tua impostazione di informazione, che mi piace molto: quadro generale (in questo caso geografico), ABC del discorso (comprensibile anche agli ignoranti come me), riportare fonti così come trovate, ed esplicito commento personale.
Beh questo è anche quello che mi hai insegnato in quello zoo-castello a via silvestri, e te ne ringrazio, è stato davvero un bel contributo per me! Continua così, che vai forte, anche se solo 3 persone su 100 capiranno qualcosa, è già tantissimo!
Baci,
Silvia
Che bel massaggino dell'ego, come dicevano Fabio e Fiamma...grazie!!!
Peccato che solo 3 su 100 leggono e commentano..
Posta un commento