12 dicembre 2018

"Direttora", perché?

E' dai tempi del liceo che cerco di evitare l'uso sessista della lingua da quando lessi il prezioso, indispensabile, fondamentale lavoro di Alma Sabatini (ed Edda Billi)  che mi fece capire che facevo bene a usare il nome proprio se dovevo differenziare il sesso di una persona invece dell'articolo la davanti al cognome (Virginia Raggi e non la Raggi) come scrivevo nei temi (e per fortuna nessuno mi correggeva).

Dico cerco perché non è facile uscire da certe consuetudini linguistiche che sono talmente radicate nella lingua (pur non essendo regole) che talvolta è impossibile sottrarvisi  con eleganza.

La difficoltà non mi ha mai trattenuto dal riconoscere la necessità di lottare lo status quo, a differenza di molte altre persone che la interpretano  come il segno che lo sforzo non va nemmeno tentato.

Per fortuna che alcune parti di questa lotta sono facili e la lingua, nonostante il suo sessismo storico, ci venga incontro.

Così nel caso dei nomi di professione le regole grammaticali sono chiare e ammettono, anzi, impongono (nel senso che l'accordo del genere grammaticale è obbligatorio) il femminile nei nomi di professioni, anche in quelle  storicamente lasciate agli uomini, da sindaca ad avvocata, da ingegnera a  medica, anche dottora, da preferire a quel dottoressa formato col suffisso derivazionale
 - essa troppo carico di significati negativi per poter continuare ad essere usato. Sabatini suggeriva anche professora, ma Cecilia Robustelli, più pavida e cauta di Sabatini, accetta professoressa (e non me la sento di darle torto) e poetessa (e qui sì non sono d'accordo, e preferisco seguire l'uso epiceno che ne fa Sabatini, e anche Edda, che si definisce una poeta) mentre  io uso come parola epicena anche studente che mi permette di scrivere un accettabile gli e le studenti invece del meno coinciso gli studenti e le studentesse.

Mi capita oggi di leggere sul sito della casa editrice Icobelli  nel quale si parla di un incontro con Edda Billi per presentare il  suo ultimo libro di poesie Donnità la parola direttora al posto di direttrice.

E me ne dolgo, perché si tratta di un femminile sbagliato.

Sbagliato non in quanto femminile, beninteso, ma nella sua morfologia.

Direttore infatti non è un nome maschile che finisce in - e il cui femminile va in - a come nel caso di infermiere infermiera. 

Direttore finisce in - tore e il femminile dei maschili in - tore i - trice.

Con diversi altri esempi  ben radicati nella lingua.
Aviatore Aviatrice.    Puericultore puericultrice. Pittore pittrice.

Quindi Direttore Direttrice. Perché allora direttora?

Scopro che non si tratta di un passo falso grammaticale ma di una scelta voluta.

Come riportato nella  nota chiarificatrice (non chiarificatora) dell'Accademia della Crusca, il femminile in - ora invece che in - ice dei maschili in - ore , in uso nel 1800 con connotazioni classiste(1), è stato usato  negli anni '90 dello scorso secolo per distinguere una donna direttore di giornale (direttora), come nel caso in cui l'ho trovato usato io, dalla donna dirigente di scuola media (direttrice).

Lascio all'Accademia le considerazioni grammaticali e lessicali che sconsigliano questo uso morfologico.

Di mio aggiungo qualche considerazione politica.

Dire direttora di giornale perché direttrice può essere confuso con il ruolo di direttrice scolastica diffonde, propala un classismo e, a ben vedere, un maschilismo irricevibili.

Che molte donne rifiutino il femminile del nome della loro professione è risaputo, a cominciare da Camusso che si fa chiamare segretario e non segretaria, perché nell'immaginario collettivo la segretaria è quella di un ufficio.

E allora? Che male c'è a essere scambiate per segretarie di ufficio? L'esigenza di smarcarsi da quelle segretarie non tradisce forse  una visione classista del lavoro?
Io non sono quella che  lecca il francobollo prima di metterlo sulla lettera. Io sono quella che la lettera la scrive. 

Io non sono una donna che manda avanti una scuola piena di ragazzine e ragazzini io dirigo un giornale.

Fin qui sul classismo, che spero, sia evidente(2).

Un po' più sottile il maschilismo.

Mi chiedo se a dare fastidio alle ...direttore e alle donne segretario  non sia tanto di essere scambiate con persone dalle  mansioni "di minor prestigio" (ammesso e non concesso)  ma dia piuttosto fastidio  di essere scambiate con donne che hanno mansioni da femmina, mansioni di cura considerate accessorie, di sostegno al maschio storicamente l'unico a poter accedere a quelle cariche.

Io non faccio un lavoro da femmina faccio un lavoro da maschio.

Ecco cosa ci leggo io infondo al classismo che porta una direttrice di giornale a smarcarsi da una direttrice di scuola.

Non è più una questione  di percepire il femminile come sminuente rispetto al maschile come nel caso di alcune  ragazze neolaureate che si rifiutano di essere chiamate ingegnera e vogliono essere chiamate ingegnere (ho dovuto lavorare il doppio di un uomo per dimostrare di essere capace e ora non mi date quel nome di professione ma me lo cambiate perché sono donna ???).

E' proprio questione di non voler essere annoverate tra le persone che svolgono funzioni storicamente percepite come femminili.

Però  così facendo invece di dimostrare sbagliata l'idea che esistano lavori maschili e lavori femminili ci si smarca dai lavori femminili considerandoli sempre e comunque inferiori o di minor prestigio degli altri.

Una preoccupazione tutt'altro che femminile e tantomeno femminista.

Viva le segretarie e anche le direttrici. Di tutti i tipi.


(1) Giuseppe Meini nella Prefazione del 19 marzo 1879 al Dizionario di Tommaseo Bellini: “(XXXV) Come l’uso talvolta si svincoli dalle norme generali, lo dicono i femminini in ice, nei quali traduconsi i mascolini in ore, quando trattasi d’azione da potersi applicare alle femmine. Se non che, nel linguaggio familiare, taluni in quella vece finiscono in ora, come stiratora, tessitora; e anche queste eccezioni possono servire alla proprietà, distinguendo, per esempio, la povera tessitora che campa dell’onesta fatica delle sue mani, dalla dottoressa tessitrice di versi, e dalla galante tessitrice d’inganni” cit.  Accademia della crusca 

(2) In realtà ci sarebbero da fare ben altre considerazioni sulla segretaria che nel nostro immaginario collettivo ha una duplice figura. O la giovane avvenente fonte di prestazioni sessuali, o la donna anziana sessualmente non  desiderabile che garantisce professionalità.

30 marzo 2018

Carla Palmieri: quando la traduzione diventa omofoba e antistorica




Sto leggendo The Diary of a Bookseller di Shaun Bythell.

La traduzione letterale del titolo recita  Il diario di un venditore di libri che in italiano (sto leggendo la traduzione di Einaudi) diventa Una vita da libraio.

La traduzione è di Carla Palmieri. Traduzione sulla quale ho molto da ridire.

Sono anzi così infastidito che credo restituirò il libro e leggerò quello in originale.

Perché direte voi? Cosa ha scatenato, stavolta, l'ira di Paesanini?

Questa persona sprovveduta che millanta di essere traduttrice (ma non lo è)  ha deciso (ce lo spiega in una nota del testo da lei tradotto) che "per comodità di lettura si è scelto di tradurre anche i titoli dei libri che, come questo, non hanno mai avuto un'edizione italiana".

Adesso, cosa si fa di solito quando c'è un titolo in lingua straniera di un testo non tradotto in italiano?

Si fa la traduzione letterale, come ho fatto io per questo libro, fregandomene dell'italiano, cercando di  rimanere più fedele al significato del termine originale (altrimenti avrei dovuto tradurre bookseller con libraio e non con venditore di libri...).

La traduttrice peciona ci prova a mantenere la traduzione letterale ma la tradisce una certa velleità di autrice.

Così Three Fever di Leo Walmsey diventa, nella sua traduzione, Le tre febbri  e perché no Tre febbri?  

 lei traduce in italiano e deve dimostrare  di saper scrivere bene in italiano, mica di essere una brava traduttrice, che non è.

In ogni caso la pensata è davvero infelice, perchè se voglio cercarmi il libro sulla rete devo fare la traduzione all'inverso.... Quindi non si capisce per la comodità di chi...

Poche pagine dopo  la disgraziata non ce la fa proprio a mantenere la traduzione letterale e traduce il romanzo Gay Agony di A. H. Manhood con un discriminatorio e omofobico Angoscia sull'altra sponda. 

La traduzione letterale di Gay Agony è Felice Agonia, perché negli anni 30, cosa che sfugge alla deficiente (nel senso letterale del termine, che manca  di qualcosa, nella fattispecie delle necessarie competenze storico-linguistiche da traduttrice) quando Menhood scrisse il libro nel 1930, il termine gay, in Inghilterra non significava ancora omosessuale (non lo dico io lo dice Peter Acroid in Queer 
 City) ma felice.

La malizia di Bythell che accenna al significato contemporaneo di gay sta dunque nella comicità a posteriori di quel titolo (visto tra l'altro che il romanzo è annoverato in una  collezione di libri di  teologia...) considerando che il significato di Manhood è, anche, virilità.

Una traduzione più in linea col testo sarebbe stata dunque Gaia agonia.

Certo non il discriminatorio altra sponda che è buffo solo nella mente omofoba della deficiente (sempre nel significato letterale) ma è comunque u altro titolo...

A questo genio dell'omofobia vorrei chiedere, cara deficiente - sempre nel senso letterale del termine - come diavolo faccio a risalire al titolo originale del libro se tu non mi fornisci la traduzione letterale, l'unica che ti è concesso tradurre visto che il libro è inedito in Italia, ma una tua personale, ecolalica, discutibile traduzione?

Naturalmente la responsabilità va soprattutto all'editore che ha pubblicato la traduzione così com'è.

Carla Palmieri VERGOGNA!!!




25 marzo 2018

L'Ansa, il sessismo ce l'ha nel sangue...


Durante i corsi tenuti per l'ordine dei giornalisti (lo so, sol al maschile, ma si chiama così), i miei inviti a scrivere in maniera meno sessista vengono combattuti con pervicace esistenza che malcelata una smaccata ostilità al menomo cambiamento.

La motivazione più ricorrente (spesso sostenuta anche dai colleghi e dalle colleghe che siedono con me dietro le scrivanie di chi il corso lo tiene) è la brevità, soprattutto per i titoli, e l'eleganza di una lingua meno ripetitiva e più stringata.

Per onestà intellettuale non posso nascondermi che non credo affatto ala buona fede di chi, per mille motivi, resiste al cambiamento.

Certo l'esigenza di titoli coincisi è un'argomento vero e problematico, ma tutta la ricerca di una lingua non sessista lo è pur non esistendo (quasi) soluzioni definitive non per questo non vale nemmeno la pena tentare.

L'Ansa mi aiuta a dimostrare la malafede di questa giustificazione.

Lucia Manca pubblica un articolo nel quale definisce la neoeletta presidente del senato Maria Elisabetta Alberti Casellati avvocatessa, invece del più corretto avvocata, sostantivo ripreso anche nel sommario.  


Eppure avvocatessa (11 lettere) è più lungo di avvocata (8 lettere).

La concisione non giustificava la rinuncia a qualunque attenzione al sessismo della lingua, anche quello non volontario?

Allora perché quel sostantivo "più lungo"?

Il suffisso derivazionale "essa" è stato una modalità diffusa per generare nomi professionali femminili dai corrispettivi maschili due in particolare, dottoressa da dottore e professoressa da professore, ancora attestati a pieno titolo nella lingua italiana del 2018.

Nemmeno il sottoscritto osa suggerire di declinare questi due femminili in dottora e professora, come qualunque altro normale sostantivo di seconda classe (sulla falsariga di infermiere-infermiera,  ingegnere-ingegnera), come pure, ce ne sono, tintora da tintore.

Questo suffisso era ritenuto  normale  dalle grammatiche ottocentesche (la Sintassi italiana di Raffaello Fornaciari del 1881) e seguiva il calco dei femminili delle cariche nobiliari (Barone, baronessa etc.).

Semanticamente quel suffisso specifica,  però, non già il sesso femminile della persona che esercita la professione, quanto, piuttosto, il fatto di essere la moglie di. 

Ancora nel 1938 Bruno Migliorini intendeva presidentessa come "la moglie del presidente" (fonte Accademia della Crusca).

In una società dove la donna ancora nemmeno votava figuriamoci se aveva accesso alla carriera professionale il problema dei nomi professionali al femminile era sentito con una certa eccezionalità che il suffisso essa rimarcava con giusta enfasi.

L'impiego del suffisso si è diffuso ben al di là dell'esigenza grammaticale, laddove infatti ci sono nomi di professioni  che derivano dal  participio presente dei verbi e non variano morfologicamente il  genere, la determinazione semantica del quale deriva dall'articolo che li precede (il dirigente - la dirigente) o nel caso dei nomi, in molti di questi casi si sono adottate forme non necessarie con il suffisso derivazionale essa presidentessa, avvocatessa, vigilessa, per sottolineare,  non tanto, o non solo,  l'eccezionalità di quelle carica, ma, in fondo, a saper  vedere tra le righe, anche, se non soprattutto,  la velleità di quella carica, di quella professione.

Avvocata, checché ne dica il sito Treccani, è l'unica  forma corretta del maschile avvocato mentre avvocatessa, nel 2018, contiene un che di scherno.

L'uso fattone nell'articolo Ansa, non è allora casuale, ma voluto.

Maria Elisabetta Alberti Casellati viene presentata in tutto l'articolo prima ancora che come professionista, come avvocata, come donna.

Per Lucia Manca è fondamentale, già nel primo paragrafo, invece di  ricordare la carriera politica della neo presidente del Senato (ricordando per esempio che pur essendo una ortodossa del berlusconismo ne è stata anche una voce critica, come riporta il corriere)   reputa necessario informare chi la legge che



E'così necessario informarci sul fatto di essere nonna, addirittura nella seconda frase del primo paragrafo?

L'articolo si conclude con una chicca


Curata nell'aspetto.

Vi immaginate a usare tali considerazioni per un uomo?

Pare di stare a leggere i resoconti sulla mise delle 21 deputate  (su 556) della Costituente nel 1946...

Adesso va bene criticare la statura politica di qualcuna, ma farlo basandosi sul fatto che è donna non fa onore a nessuno e nessuna.

O no?
 

24 marzo 2018

Mina, l'icona


Ricorrono i 40 anni dall'addio alle scene di Mina, siglato dai concerti dell'estate 1978 registrati album usciti quello stesso autunno.

Un addio mai davvero definitivo (Mina continua a "comparire" in radio, sui quotidiani e i settimanali, per tacere di Mina in studio del 2001) ma comunque fondamentale per una cantante: niente più concerti, niente più partecipazioni televisive o cinematografiche, niente.

Nell'iconosfera a cavallo tra due millenni Mina riesce  però a mantenere viva una riconoscibilità visiva normalmente consegnata alle icone immortali perché decedute e dunque immutabili.

I tratti fisionomici della signora Mazzini (il naso aquilino, i nei sulla guancia destra, gli occhi privi di sopracciglia, le mani che volano sul viso e intorno) sono immediatamente riconoscibili come il basco del Che e la capigliatura bionda di Marilyn.

L'iconizzazione del volto di Mina non è costruita sulla cancellazione del suo volto di dopo come nel caso di Garbo (Greta, non il cantante) che si è sottratta a qualunque foto da una certa età in poi, di fatto scomparendo.

Dopo l'addio alle scene di Mina abbiamo continuato a vedere  foto ufficiose e rubate, foto nelle quali era grassa, dimagrita, sorridente, infuriata, col doppiomento, senza, complice certa  stampa scandalistica che ha continuato a massacrarla (un aborto spontaneo e un tentativo di suicidio tra le invenzioni, disgustose, di Stop negli anni 80).

Ci sono  poi  le copertine dei suoi album  nelle quali, accanto a immagini bizzarre (alle quali ci ha abituate da sempre, dalla scimmia del 1971 ai cerchi concentrici di Cinquemilaquarantatré) Mina ha declinato il suo volto nelle forme d'arte più varie,  dalla barba di Salomè alla cinepresa di Sorelle Lumière passando per una delle migliori copertine, non solo sue, ma in generale, che è la testa calva di Attila cui l'aliena di Moeba è in qualche modo discendente.

L'assenza di Mina dalle scene non è mai stata silenziosa, e non solo per i dischi che ha continuato a sfornare a cadenza annuale finché la distribuzione non ci ha messo lo zampino  mettendo fine fine  uno dei Guinness mai eguagliati né  mai riconosciuti: dal 1964 anno del primo lp sino al 2003 Mina ha pubblicato almeno un lp all'anno, con punte di tre, dischi di brani di nuova incisione, tra cover e inediti, una prolificità che non ci risulta sia stata nemmeno lontanamente sfiorata  da chicchessia(1).

Nonostante  la sua assenza fisica Mina ha continuato ad abitare il mondo dell'immagine diventando l'icona di se stessa, o, meglio, scomparendo come personaggio fisico e rimanendo ufficialmente riconoscibile solo in icona.

Ogni foto rubata (anche le immagini video di Canale Cinque che la riprendono mentre chiama sguaiata suo nipote Axel - Aaaaaaaaaaaaaxxxeeeeeeellllllllllll - sicuramente da lei autorizzate) conferma e rimanda all'immaginario ufficiale,  quello del suo volto sempre uguale a sue stesso non perché immutabile,  imperituro ma perché trasfigurato  da un'aura di minosa iconicità  che lo rende sempre omologo. Mina capovolge i rapporto tra immagine concrea e icona.

Non è l'icona a confermarsi all'immagine reale è quella reale a essere riconosciuta come Mina perchè conforme all'icona.

Ogni immagine di Mina è una declinazione diversa di certi tratti inconfondibili tramite i quali la riconosciamo sempre, per il resto c'è il nome.

La mina iconica  esiste e resiste  perché è il minimo comune denominatore di una Mina altrimenti camaleontica, mora poi bionda, magra, magrissima poi muliebre  (parlo della mina prima del ritiro dalle scene).

Nel presentarsi icona identica a se stessa Mina riafferma la sua continua e continuata presenza nell'immaginario collettivo italiano (2).

Dalla pasta Barilla degli anni 60 alla cedrata massoni dei 70  mentre si fa testimonial di prodotti commerciali  Mina colonizza le pubblicità con la sua presenza fisica e musicale, di cantante e di canzoni, complice un format pubblicitario che distingueva l'intrattenimento dal messaggio meramente pubblicitario.

E' in questi anni che Mina affina e definisce quei tratti distintivi dell'icona una icona così potente da potersi permettere una copertina con la foto di una scimmia e il suo nome.

Dopo l'addio alle scene la presenza in icona di Mina non è quasi mai  legata alla promozione di un album da "vendere".

Mina con la sua presenza iconica "vende" (conferma) l'icona  non qualche suo disco.

Le pubblicità fatte anche dopo l'addio alle scene non sono mai state  per i suoi dischi ma per qualche prodotto.

Anche negli anni della tv commerciale (non di Stato) Mina ha usato i format pubblicitari lunghi, quelli dello sponsor, dove non si fa direttamente pubblicità del prodotto ma è quel marchio che si lega a lei creando l'evento.

Fu così per Wind  nei primissimi anni 2000 (con tanto di due Ep  prodotti ad hoc, uno solo dei quali, chissà perché, entrato nella sua discografia ufficiale), è stato così più di recente per Fiat (anche lì con uscita di un singolo con la canzone usata come "brano" più che come Jingle) e poi di nuovo per Barilla.

E così che Mina, nel 2018, si traghetta verso l'ottuagenario (il prossimo 25 Marzo compie 78 anni, auguri!) con quella che, in superficie, è solamente una operazione promozionale ma che, a ben  vedere, è qualcosa di più e, soprattutto, di completamente diverso.

Durante le 5 serate di Sanremo 2018 Mina inanella altrettanti spot per la Tim nei quali non appare solamente in voce e in canzone, come per l'anno precedente,  ma anche visivamente, prima timidamente, ritratta da dietro, e poi, per la serata finale del festival, in una apoteosi digitale che la vede piombare sul palco dell'Ariston.

Il meccanismo narrativo è semplice e furbo  allo stesso tempo. Mina è un'aliena che giunge da un'altra galassia e, per arrivare in tempo all'Ariston si scarica  come avatar all'Ariston cantando la cover di  Another Day of Sun.

Un essere alto tre metri dalle testa conica (già vista nelle serate precedenti) con il volto  e le mani e le braccia inconfondibilmente di Mina. 

Il riferimento iconografico è alla copertina di Piccolino del 2011 ma l'interessante è il rapporto tra aliena e la sua immagine scaricata, che istaura un elegante e riuscitissimo parallelo;  Mina in carne ed ossa sta alla sua icona proprio come l'Aliena sta alla sua  proiezione olografica.

L'aliena  non è scesa sul palco dell'Ariston in carne ed ossa (o di quel che è fatta in quanto aliena) ma come immagine. 

Proprio come Mina che continua a calcare le scene da icona.

Un aliena\Mina in immagine tramite la quale la donna e la cantante Mina riesce a proporsi in maniera credibile col sembiante di sempre
 iconizzato negli  anni 70)  anche  50 anni dopo.

L'aliena Mina è altamente riconoscibile e la sua somiglianza non confonde ma conferma.

Mina riesce a non invecchiare non perché sconfigge l'invecchiamento i cui segni  minimi ma evidenti si fanno sentire anche nella sua voce che non può -  per ovvie ragioni organiche -essere la stessa di 50 anni fa anche se si è mantenuta straordinariamente bene.

A Mina non interessa rimanere giovane, Mina riesce credibile nella versione aliena perchè la sua forza e la sua icastica autorevolezza le permettono di approntare un dispositivo iconico che è  riconoscibile e riconosciuto dal pubblico, ancora.

Paradossalmente una Mina invecchiata e più aderente  all'immagine concreta della donna di oggi, qualunque essa sia, non sarebbe  plausibile, perché non conforme ai segni iconici che non possono che  essere quelli  riprodotti sempre uguali a se stessi.

A differenza di tutte le donne dello spettacolo che sono ricorse alla chirurgia plastica per apparire giovani, risultando deturpate da mascheroni costruiti dal bisturi di chirurgi misogini e criminali, Mina è riuscita a bypassare l'invecchiamento perché la riconoscibilità è nei tratti iconici noti e, bien sur, nella sua voce.


Stavolta però Mina chiude il cerchio.

La sua presenza autoiconizzante a Sanremo diventa l'involontaria anticipazione del nuovo disco Moeba  annunciato i primi di Marzo nel quale l'aliena iconica di Tim campeggia in copertina.

Così non solo Mina più che testimonial di Tim è l'evento di cui Tim è occasione, ma l'intera operazione diventa a sua volta prodromo pubblicitario di un suo disco.

E anche in questo Mina detiene un primato da Guinness, credo sia infatti l'unica artista che venga pagata per fare pubblicità a un suo disco...

Certo chapeau agli e alle esecutive dei progetti pubblicitari ma  l'amor che move il sole e l'altre stelle  è lei, una urlatrice che sovvertì il panorama ingessato della musica italiana e che, 60 anni dopo, sta ancora lì avendo musicalmente ancora molto da dire Moeba lo dimostra in maniera sorprendentemente efficace.

E pensare chi le chiama solo canzonette...    














1)  I frocetti misogini e saputelli che pretendono che Mina abbia fatto  un disco nuovo ogni tanto riempiendo il mercato di compilation di suoi brani anni 60 si informino meglio: Mina non ha il controllo dei brani anni '60 e non è responsabile  di quelle compilation che costituiscono una discografia parallela e ufficiosa.

2) Quale contenitore mediale migliore del Festival della canzone italiana da lei frequentato anche molto dopo  le sue apparizioni come cantante che si limitano al biennio 61-62 ?  Dalla sigla di Sanremo 84 con Rose su Rose al Nessun dorma presentata a Sanremo 2009 come lancio pubblicitario del suo album melomane Sulla tua bocca lo dirò). 


bello essere
quello che si è anche se si è
poco
pochissimo
niente


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