Tra le tante oscenità della morte tra le più volgari c'è senz'altro quella degli oggetti che sopravvivono alla persona. Una casa da svuotare, oggetti da spartire, smaltire,
buttare. Oggetti senza ormai contesto, senza competenza, perchè la persona per la quale avevano un significato, e della quale costituivano una parte della sua storia, non c'è più. Oggetti destituiti, degradati, squalificati. Magari contesi perché di valore, economico o affettivo. Ma sempre imbarazzanti propaggini di chi non c'è più.
Quando morì mia madre il passaggio fu quasi impercettibile. La casa, i suoi oggetti, il suo arredo, rimasero tutti al loro posto visto che io e mia sorella continuammo ad abitare nello stesso appartamento per altri 7 anni. Mia sorella scelse di non modificare nulla dell'arredo, nemmeno la posizione degli oggetti di decoro, trasformando la casa di due figli orfani di 20 e 25 anni nella casa-museo di una mamma morta.
La mia stanza era diversa, ma lo era stata già
prima della morte di mamma. Solo negli anni, per mancanza di spazio, alcune mie propaggini uscirono dalla stanza (una libreria, qualche suppellettile) ma l'espediente della casa museo non mi fece fare l'esperienza che fanno tutti i figli quando muore la mamma vecchia (mia madre aveva 54 anni quando morì): che ne faccio della roba di mamma? Solo i suoi vestiti, oscenamente inutili, vestigia di una persona che non c'era più, si imponevano in tutta la loro ingombrante presenza. L'incombenza di sbarazzarsene fu di mia sorella, cui spettarono anche i pochi ori, i trucchi e i rossetti, e degli altri parchi effetti personali. A me toccò uno specchietto da bagno, di quelli di plastica, dell'Upim, che ancora custodisco gelosamente, e parte del contenuto del cassetto dell'ufficio del quale mi è rimasta ancora la radiolina a transistor, rossa, di plastica, con le rifiniture cromate.
L'ingombro della roba mi si è presentato per la prima volta in tutta la sua concretezza alla morte di Fraces, quasi due anni fa ormai, quando, per fortuna non da solo, ma, anzi, partner minore dell'impresa, io, Rob, Pasquale e Marco, abbiamo svuotato il suo appartamento, del quale ho preso molte più cose di quanto mi sia rimasto di quello dove sono cresciuto e sopravvissuto a mia madre per sette anni (la cucina scomparsa, la camera da letto, quella che mamma aveva da quando si era sposata e che, dunque, essendo il primogenito, ricordo dalla primissima infanzia, andata perduta in seguito all'allagamento della cantina di alcuni amici che ce la custodivano gentilmente, il resto dei mobili, camera da pranzo e poco altro, a casa di mia sorella...).
Vedere la casa piena di oggetti quando la proprietaria non c'è più è una rimanenza insolente, una perduranza ostinata, una sopravvivenza micidiale, che sancisce l'indifferenza dell'universo alla morte di chicchessia (come fanno
i suoi oggetti a esser ancora là?) Il
roba mia vientene con me di verghiana memoria acquista così un significato più sinistro, ma anche sacrosanto: che alla morte di qualcuno sparisca la sua roba senza tante storie perdio!
Così, ieri sera, alla fine del film Il riccio subito dopo che la protagonista Renée è morta (ops, scusate lo spoiler!) vediamo la stanza dove custodiva tutti libri che aveva letto nella sua esistenza solitaria di portinaia di uno stabile signorile, con gli scaffali impolverati e vuoti. I libri nelle scatole, tranne due, regalati alla giovane dodicenne Paloma, che l'ultimo inquilino arrivato, il non più giovane
Kakuro Ozu, l'unico ad accorgersi che Renée fosse una donna, ha provveduto a inscatolare.
Ho pensato subito ai miei di libri, quando morirò, alla loro massiccia presenza e ...ingombranza, alla loro polverosa sopravvivenza a me, e dunque all'assurdità dell'accumulo, allo spreco di spazio, di tempo, di vita. Sarà che Reneé ha appena 9 anni più di me ed è grassa e malandata come me, coi capelli lunghi e trascurati come i miei, disabituata ai contatti umani in maniera più plateale e assoluta di quanto non capiti a me, ma significativamente in maniera analoga.
Ecco il motivo in più che avevo per essere triste all'uscita del film, che ho visto ieri pomeriggio, con Antonio, al Madison. Un finale prevedibile e banale, reazionario nella sua ineluttabilità: la protagonista muore proprio quando, dopo anni di vita sospesa nel tempo, il tempo comincia a scorrere di nuovo, e proprio mentre con sua grande sorpresa, Renée si scopre niente affatto arrugginita alle cose della vita, tenuta in allenamento dai tanti libri letti che l'avevano tenuta lontano da un mondo che non le interessava più almeno da quando il marito le era morto di cancro 15 anni prima, ecco che un impossibile incidente stradale la toglie di mezzo.
Un film furbetto, che imbastisce una blandissima critica alla borghesia e poi fa morire la chiave vivente di quella critica improvvisamente riconfermando lo status quo .
Non ho letto (ancora) il romanzo da cui il film è stato tratto. So che ci sono significative differenze (tanto che l'autrice del romanzo, Muriel Barbery, pare abbia preso le distanze dal film): molte meno citazioni letterarie mentre il diario di Paloma (la ragazzina dodicenne aspirante suicida, l'altra protagonista del romanzo la cui storia nel film viene presto dimenticata per quella di Renée) è trasformato in una registrazione video
Poche le critiche pericolose/ perchè vere alla borghesia: una inquilina che saluta il signor Ozu e la sua accompagnatrice (
è un piacere vederla) senza riconoscere in lei La portinaia e Renée che non si capacita non l'abbia riconosciuta, splendida notazione subito rovinata dalla constatazione retorica di Ozu è perchè non ti ha mai vista (maldestro tentativo di filosofeggiare alla Piccolo principe). L'atteggiamento schiavista che tutti hanno nei confronti della portinaia, vista come una macchina assolvi funzioni e non come una persona (la sorella di Paloma che la sveglia alle 7 e 30 del mattino solo per raccomandarsi di recapitarle subito un plico che aspetta: lettere d'amore? No la tesi corretta (niente pc?).
Lo sviluppo dei personaggi nel film non è ben misurato. Il film si apre con Paloma che annuncia il suo suicido 165 giorni dopo, al compimento del suo dodicesimo anno d'età perché, consapevole che il suo destino da adulta sarà come quello di un pesce rosso che vive in una boccia d'acqua, preferisce togliersi di mezzo e si conclude con la morte di Renée. Ma mentre la prima parte del film è incentrata su Paloma e tutto è visto dal suo punto di vista man mano che facciamo conoscenza di Renée Paloma perde d'importanza, nonostante il suicidio annunciato e, soprattutto, il film smette di essere raccontato dal suo punto di vista. Il brusco passaggio (senza che il film lo mostri con alcune espediente narrativo) dai 165 giorni al sudicio dell'esordio direttamente a una settimana prima del suo compleanno (perchè?!?!) danno subito poco peso al suicidio della giovanissima che invece, per il personaggio, è meditato e davvero voluto. Così, mentre all'inizio il riccio sembra il film di Paloma appena Renée prende spazio nella storia il film diventa bruscamente il film della portinaia cicciona, butta e sfigata che riprende vita quando è elegantemente corteggiata da uno strano signore giapponese con la sua cultura esotica (la casa arredata come fosse la più classica delle case giapponesi, nessun oggetto a vista, stanze dalle pareti vuote, con lo stretto indispensabile), un tocco pittoresco per il provincialismo borghese della regista e sceneggiatrice di tutti noi europei contemporanei da quando abbiamo smesso di essere noi centro culturale del pianeta.
Una storia di adulti e per adulti che usa il punto di vista della bambina come espediente narrativo e non perché sinceramente sente esigenze, vissuto e sensibilità di Paloma.
Un non scevro da luoghi comuni anche se usati in maniera elegante e giustificati, all'inizio, dal punto di vista di Paloma. Padre madre e sorella della dodicenne ci vengono descritti tramite i suoi occhi e i suoi caustici commenti (padre ministro vittima di un rimpasto governativo, madre alcolista, in analisi da 10 anni, che parla alle piante, sorella maggiore alle prese coi ragazzi e indifferente dell'acuta intelligenza di Paloma) personaggi descritti con schemi semplificati, giustificata dal peculiare punto di vita che li descrive, una bambina di 12 anni. Ma quando il film, senza soluzione di continuità, non è più il racconto di Paloma perchè ci mostra fatti cui paloma non assiste e che, dunque Paloma non può conoscere, anche dal nuovo punto di vista (a tratti di Renée a tratti più dell'istanza narrante del film) i personaggi continuano ad avere lo stesso inesistente spessore e ci rendiamo conto che i cliché usati non sono quelli di Paloma ma quelli della regista nonché autrice della sceneggiatura (o del romanzo, non saprei, non avendolo letto).
Tranne Ozu, Paloma e Renée tutti gli altri personaggi sono descritti con pochi tratti, la vecchia svampita, la condomina antipatica (quella che non riconosce Renée quando esce con Ozu) la condomina solidale con Renée che la convince ad accettare il primo invito a cena a casa di OZu, ma che poi scompare improvvisamente dal film e non ritorna nemmeno nel finale...
Insomma un film non pienamente riuscito, alquanto furbetto nel modo in cui racconta la storia ma con una caratteristica non so quanto voluta o quanto involontaria che gli conferisce un certo stile e una certa coerenza e lo rende godibile, da vedere, tanto da farmene parlare qui.
L'assenza di tecnologia digitale. Paloma usa una strana videocamera HD, senza schermo visore, ma col mirino di una volta, quello delle vecchie cineprese super8). Il riccio è un film atecnologico, dove non ci sono computer, le tv sono ancora quelle a tubo catodico, pochi i telefonini, e anche il film (in videocassetta) che Renée vede con il signor Ozu a casa sua è visto su di uno schermo in retroproiezione e non in uno di quei pacchiani inutili e inquinanti tv al plasma. Quindi non la borghesia, ma quel che rimane dell'aristocrazia, quando la cultura che si possedeva era assai solida e non abbisognava di ostentazione. E anche le animazioni dei disegni di Paloma che si vedono ogni tanto nel film hanno qualcosa di squisitamente analogico.L'unica eccezione l'ausilio digitale nel mostrare l'incidente che uccide Renéee investita da un'automobile (vediamo l'investimento, maldestramente animato digitalmente, in maniera analoga a quello che si vede all'inizio de
Le fate ignoranti di Ozpetek). Csì quella tecnologia coraggiosamente butta fuori dalla porta rientra dalla finestra di un oltranzismo scopico che deve farci vedere l'inutile quel che sappiamo non essere vero...
Certo che confrontata alla piccola (soprattutto moralmente) borghesia italiana quella francese appare la più nobile delle aristocrazie...
Gli indizi di tecnologia digitale ci sono (il bagno tecnologico di Ozu che collega mozart alla tavoletta del wc per cui ti siedi e parte la musica (e si vede il controllo del dispositivo che non è certo analogico) per cui il film, anche se sembra ambientato negli anni 70, è sicuramente contemporaneo e proprio per questo è interessante vedere una storia nella quale le ultime propaggini del nostro organismo, quelle invasive digitali che banalizzano ogni prodotto culturale contaminandolo in un unico enorme dato alfanumerico sia esso musica film foto o parole scritte, da consumare non sono presenti non sono necessarie (non c'è film nel quale il telefonino non sia un espediente per far proseguire la trama...). Un film che fa riflettere ma che non scomoda affatto i miti orizzonti borghesi, né quelli dei protagonisti del film né tanto meno di quelli ancora più miti degli spettatori cui il film si rivolge: la parabola di Renée (una Josiane Balasko in stato di grazia), è chiara, sarà anche colta, intelligente e più umana dei borghesi ricconi del palazzo ma non ci siamo allontanati di molto dall'etica verghiana: Renèe è e resta una portiera sfigata e ogni tentativo di emancipazione è destinato a fallire.
E buonanotte al secchio.