31 ottobre 2010

Festival del film interemezzo. I commenti dei mie conoscenti: delle sabbie mobili di merda

Ieri ho avuto la sfrontatezza di vedere sette film, miracoli degli orari che si sono incastrati bene e precisione dell'organizzazione ce ha fatto partire tutte le proiezioni puntualmente, tranne l'ultima, quella delle 22 e 30 che è iniziata con 20 minuti di ritardo (divenuti poi 30 perchè in sala c'erano regista e cast). Il ritardo era dovuto alla presenza in sala, anche alla proiezione delle 20, del regista, e del successivo dibattito col pubblico, per cui ritardo giustificato.
Pensare che c'è chi, praticando uno sport molto italiota, critica la macchina del Festival, arrivando a consolarsi con la prospettiva (voce? Diceria?) che pretende che questa quinta edizione sia l'ultima. Lo ha detto una mia vecchia conoscenza che non vedevo da tempo immemore, insistendo quando le ho risposto che i gossip non mi piacciono, lo ha detto una giornalista.
Perché, in Italia ci sono giornalisti?
Alla mia amica non piace l'organizzazione del festival, e alle sue lamentele si aggiunge un attempato signore suo amico, il quale, mi speiga, per vedere i film con lei, pur potendo avere l'accredito stampa, ci ha rinunciato per poter vedere i film con la nostra amica in comune. di che si lamentano i due?   Della fila da fare alle proiezioni, quelle della mattina che sono delle anticipate stampa, alle quali gli accrediti culturali entrano alla fine, dopo che i possessori di accrediti stampa sono entrati.  L'amico della mia amica, che è anche simpatico, commenta, en passant, i possessori dell'accredito stampa, lui che scrive da 40 anni, surclassato dai ragazzini che scrivono su internet. Anche a me, devo dire, certe checchine giovanissime che non conosco nulla del cinema precedente la loro nascita e si atteggiano a critici cinematografici, fanno girare i cosiddetti, ma non perché sono ragazzini. In ogni caso due snob non fanno una ragione...
Accuso amica e amico di praticare lo sport italico di non rispettare le regole perchè ognuno di noi crede a differenza di tutti gli altri, di avere buone ragioni per esserne dispensati. Se la proiezione è stampa tu che hai l'accredito culturale non puoi lamentarti che ti facciamo attendere dando la precedenza a chi quella proiezione è stata dedicata ma comunque facendoti entrare... Ti stanno facendo una cortesia, potrebbero benissimo dire i culturale alle anticipate stampa no. Che è quello che avrei deciso di fare io dopo che l'amico della mia amica , mi racconta, è andato a lamentarsi in direzione, che i ragazzini si fumano la sigaretta prima di entrare e lui comunque deve aspettare prima che loro entrino. Fossi stato io al posto del direttore gli avrei risposto: Bene lei non entra in nessun caso. Problema risolto. 
Non importa quanto umiliante sia vedere dei 20enni passare prima di te che vai per i 70... Che poi ti facciano entrare a proiezione iniziata, quando in sala c' il buio, per quanto antipatico, io penso ancora grazie che mi hai fatto entrare visto che quella proiezione è solamente per la stampa.
Non mi posso lamentare per un diritto che non ho e per una cortesia che mi fanno:  i culturali entrano anche alle proiezioni stampa solo se c'è posto.  Se tutti aspettano fino all'ultimo per entrare in sala facendo entrare te culturale a film iniziato non è certo colpa dell'organizzazione (ricordate è da lì che siamo partiti...) ma di noi italiani che non sappiamo rispettarci l'un l'altro...
Cosa può fare l'organizzazione del festival? Un corso di educazione accelerato?! 
E chi educa l'amico della mia amica?
D'altronde la mia amica, quella che si lamenta dell'organizzazione e che dice che questa di Roma non funziona ma quella di Venezia sì (!?!?!?!?!?!?!) parte da un punto di vista ancora più personale. Qualcuno in sala le ha impedito di mangiare il panino. E quel qualcuno per questo o stronzo e prepotente. (per amore della verità faccio presnete che il suo amico l'ha criticata per questo ma era solo epr dire, lei ha esagerato ma io no...).
Stronzo chi sta lavorando o burina la mia amica che entra attene nell'atrio, non già in sala, ma nell'atrio, mangiando il panino che può benissimo finire di mangiare fuori? Come le ho fatto notare se tutti mangiassimo nell'atrio quello diventerebbe un porcile: un tizio che si è portato del cibo in sala (lo faccio anche io, panini fatti in casa) ha lasciato la busta che conteneva dei tramezzini comprati al bar sul sedile accanto al suo.
Io mi riporto sempre indietro avanzi  e bustine naturalmente...
Non sono bravo io è un porco il tizio che ha lasciato il sacchetto di carta.

Io invece noto, riconosco e ringrazio l'efficienza e la professionalità di chi ci fa accedere in sala, ce ne fa uscire, le pulisce, le mette in sicurezza ed efficienza (il motivo per cui ti fanno uscire e poi rientrare anche se il prossimo film inizia nella stessa sala 30 minuti dopo...) e non mi sento diverso, con diritti in più perchè ho un accredito. Quelli stanno lì a lavorare io sto qui a vedere film (anche io lavoro ma se permettete quelli puliscono la sala io vedo un film...).
ITALIANI DI MERDA

 (...)

Incontro un'altra amica, colta, intelligente, sensibile, compagna, bella. Eppure ieri, in un commento a uno dei film si è rivelata molto femmina. Scusate, l'aggettivo merita una spiegazione non arrivate subito a conclusioni affrettate.

Il film è Les petits mouchoirs del quale ho parlato nel post precedente. Commentavamo lo spessore dei personaggi femminili. Io dicevo come, fosse stato un film italiano, quei personaggi non avrebbero avuto spessore, mentre in realtà qui, pur rimanendo secondari rispetto quelli maschili, acquistano peso man mano che il film procede.
La mia amica concorda ma poi aggiunge che le due mogli erano petulanti. Oppressive. Sic!
Il padrone della casa di vacanza, quello che ha ricevuto la dichiarazione d'amore dal suo migliore amico, si lamenta con tutti i sottoposti per ogni dettaglio insignificante (l'erba non tagliata, le faine che disturbano il sonno, per le quali ha sfondato a colpi d'ascia una parete di legno), di ogni ritardo dei suoi amici che invece di alzarsi all'alba dormono fino a tardi,  un gran rompiscatole che tutti sopportano benevolmente perché lo conoscono, si conoscono, sono amici di vecchia data. Quando grida con una incazzatura da adulto contro il figlio di una coppia di amici (lo stesso ragazzino che ha chiesto cosa significa pedé, la moglie,  trattandolo da ragazzino cresciuto qual è lo porta in camera e mentre gli grida contro gli dice guardami negli occhi mentre ti rimprovero. Petulante? Oppressiva? Non piuttosto una donna che ha a che fare con un marito-figlio? La seconda moglie petulante e oppressiva, per la mia amica, è proprio quella dell'innamorato del suo migliore amico la quale scoperta la bisessualità repressa del marito invece di rientrare a Parigi con i figlioletto lo raggiunge in camera  e lo abbraccia da dietro come a dirgli: io sono qui.
Anche io vorrei una moglie cosi ...petulante!
Per la mia amica queste donne sono materne e non mogli, perché non fanno sesso coi mariti.
Della prima coppia non lo sappiamo, il film non ci mostra che lo fanno, ma nemmeno il contrario. Della seconda coppia il problema c'è ma non perchè la moglie non vuole, anzi la vediamo di notte giocare ad un videogioco porno (notare la raffinatezza della sceneggiatura, la donna vede delle animazioni al pc non immagini reali) ma perchè il marito si è accorto che una parte del suo orientamento sessuale che ha finora ignorato ora emerge in tutta la sua dirompenza e la trascura.
Insomma appena appena le donne escono dal ruolo codificato di moglie che, credo, sia quello di scopare coi loro mariti e far loro da serve,  e diventano appunto donne, cioè esseri senzienti con una mente autonoma, ecco che anche una donna intelligente come la mia amica rimane, in quanto femmina, vittima dello stesso cliché perchè, credo è più facile essere la donna di un uomo che una persona autonoma. 

Siamo insomma ancora ben intrisi di merda italiota e più ci agitiamo più ce ne lordiamo.
Delle sabbie mobili di merda...



29 ottobre 2010

Festival Internazionale del Film di Roma numero 5

Che cos'è un pedè, chiede il figlioletto che ha sentito la parla. Chiedilo a tuo padre, fa uno degli adulti, che lui lo sa bene. Il padre del ragazzino, un giovane uomo che sta cominciando a invecchiare chiama il figlio e gli dice: Pedè è una parolaccia, un insulto, e significa omosessuale. E omosessuale significa un uomo che ama un altro uomo. E tu lo devi rispettare, perché l'amore è sempre amore. Poi accompagna il figlio e i ragazzini di un'altra coppia in un'altra stanza è da un pugno all'uomo che ha parlato prima. Il suo migliore amico al quale ha confessato solo pochi giorni prima di esserne innamorato.


E' una delle scene di Les petits mouchoirs Francia, 2010, di Guillame Canet. Un Grande freddo francese lunghissimo (154 minuti) e con dei personaggi femminili molto interessanti che mostra, ancora una volta, l'egoismo adolescenziale dal quale noi maschietti non sappiamo uscire e dal cui orizzonte emotivo annaspiamo verso la vita adulta (quando mi sono sposato ero molto giovane si giustifica con l'amico al quale ha dichiarato il suo amore dicendo i piacciono le tue mani). Film interessante soprattutto perché mostra quel che vien prodotto oggi in Francia una produzione solida, credibilissimo nei dettagli, ben recitato, ben scritto, splendidamente girato e diretto). Per vedere film francesi dobbiamo rivolgerci ai festival, qui in Italia, anche se il tributo da pagare sono le varie marchette fatte al cinema USA meno invadente degli anni scorsi ma con proposte stucchevoli (i primi 20 minuti di Tron Legacy) mentre il provincialismo filoamericanon di colleghi e amici dirotta in massa verso film di Landis che, pure, saranno in sala già dalla settimana prossima, mentre quello di Canet no, e mi sono sentito rispondere e chissene frega.
Secondo film di oggi un inutile, anche se ben girato e recitato Animal Kingdom Australia, 2010 di David Michôd la cui tesi è che come gli animali i giovani sono deboli e vengono difesi dagli adulti forti, fin quando non sanno difendersi da soli, come capita al protagonista, minorenne sopravvissuto a una madre eroinomane morta di overdose,  che spara allo zio, rapinatore psicopatico che gli ha ucciso la fidanzata per tema, che lo denunciasse alla polizia, dopo averlo fatto assolvere al processo del quale era testimone chiave. I panni sporchi si lavano in famiglia e lo stesso dicasi per la giustizia. Inutile dire, ma forse no, che in sala, alla proiezione per soli giornalisti, il film è stato accolto da un applauso entusiasta, tutti fascisti gli italiani...

Poi è la volta dio My Brothers Irlanda, 2010 di Paul Fraser, compitino in digitale dignitoso e ben confezionato su tre fratelli un preadolescente un adolescente e uno in età di patente che arrivano fino al mar per riprendere l'orologio digitale Casio (ah! il product placement) al padre morente che si è rotto. Scuregge, maniaco che si masturba (per fortuna fuori campo) dinanzi il ragazzo d'età di mezzo (che però ha perso gli occhiali quindi vede quel tanto che gli basta per darsela a gambe levate) ma, insomma, un film inutile.

Otsuka Yasuo no Ugokasu Yorokobi (Giappone, 2004) di Uratani Toshiro è il più classico dei documentari su Ootsuka Yasuo, storico animatore, tra i fondatori dello stile giapponese, nonché mentore di Takahata Isao e di Miyazaki Hayao. Come ogni buon documentario ti insegna molte cose, ed essendo stato pensato per un pubblico giapponese e non internazionale dice anche altre cose involontariamente (sulla politica e la storia giapponesi, sulla loro cultura), un piccolo gioiello.

Hævnen (Danimarca, 2010) di Susanne Bier (non lasciatevi ingannare la t.l è vendetta non paradiso come può sembrare, ma perchè siamo tutti così anglocentrici?!) è una storia ben scritta, ben girata e ben diretta, che pone buone domande etiche e suggerisce più di una risposta interessante e meno discutibile che altrove, anche per l'impostazione non cattolica (e non religiosa) del problema che però affronta domande un poco astratte non calate nella società, nella storia. Anche la parte girata in Africa, con uno dei protagonisti che fa il medico volontario, non denuncia le cause  delle condizioni di quegli esseri umani, si limita a descrivere IL MALE (nella fattispecie un guerrigliero che va in giro con le armi e si diverte ad aprire le pance di giovani ragazze incinta per scommettere sul sesso del nascituro) chi gli dà le armi? Perché il medico non appronta una campagna anticoncezionale ? (lo seguirebbero come prendono i suoi medicinali...) Non si sa. Così posta la questione anche se rispetto alla vita mia e di voi che leggete è sicuramente meglio (se fossimo tutti un minimo responsabili del nostro benessere a discapito degli altri dovremmo tutti fare volontariato nel terzo mondo...) il film è anni luce avanti, alla fine è un film edificante che conferma la buona volontà di noi bianchi assolvendoci dalle colpe dello sfruttamento dell'Africa. Gli africani sono solo sfigati e non è colpa di nessuno. Ma non fraintendete il film si svolge in Danimarca e riguarda il problema di come reagire nei confronti del bullismo, giovanile e adulto. Ma, come al solito, prende una piega privata (il bulletto giovane ha appena perso la madre a causa de cancro...) per chiamare in causa la società. E per la prima volta in un film Danese (almeno per quelli che ho visto io) i genitori annaspano proprio come quelli del sud Europa. Insomma stiamo davvero nella merda se anche i paesi scandinavi hanno problemi basilari di disciplina e non sanno come reagire coi figli.

Questo secondo giorno del festival è comunque all'insegna dell'inutilità. nessuno dei film visti ha infatti lo spessore dell'opera nuova, o diversa, nessuno dei film proposti ha la motivazione di disturbare lo spettatore romano con nessuna qualità, nemmeno la ragione più commerciale. Sono tutti film che sono copia di altri gfilm, a loro volta copia di altri film e solo quelli erano davvero interessanti.

Sarà che nel 2010 io ai film chiedo davvero molto ma i film visti oggi sono tutti facilmente dimenticabili e sembrano pescati a caso dal mucchio


Ieri invece è stata la volta del capolavoro (si ironizza ovviamente) di la scuola è finita opera terza di Valerio Jalongo, con Valeria Golino, brava anche da chi non sa dirigere gli attori e Vincenzo Amato, attore feticcio di Crialese che qui non convince per niente. Un film rivoltante che parla della scuola con la cattiveria e la superficialità degne di Maria (pora)Stella Gelmini (la più grossolana i giudizi delle medie al posto dei voti in un liceo...), banchi istoriati di scritte, buchi alle porte, collegi dei docenti fatti in 12, misogino (la madre del protagonista è una ex bucatina mignotta e sprovveduta) e qualunquista, che prende un po' di credibilità solo quando esce dalla scuola, per incartarsi subito nel privato dei protagonisti, niente società, niente economia, niente paese reale. Sguardo da vecchio (e il regista lo è molto più dei suoi 50 anni) sui giovani descritti come bestie da zoo per un fil inutile che si guarda solo per la bellezza di Valeria Golino e quella del giovane protagonista Fulvio Forti.

22 ottobre 2010

Frances Nacman, il corpo e la voce.

Era una sera di inizio estate. L'anno, il 1984. Io e i miei amici di allora, Graziano, Roberto, fabrizio decidemmo di andare a sentire un concerto Jazz. veramente IO decisi e loro mi veniva dietro. Aprii la pagina degli spettacoli di Repubblica (manifesto non ce l'aveva...) cercai nella sezione concerti jazz puntai il dito sull'elenco né corposo né esiguo e mi cadde l'occhio su un nome Frances Day, come Doris Day. Quel nome mi andava a genio. Il locale era purea  Trastevere, quindi decisi che avremmo visto il concerto di Frances Day.

Il resto è storia.

Nel 1985 quando io e Frances non eravamo ancora amici ma io IL suo fan e lei LA DIVA le chiesi un'intervista per la rivista Uscita di Sicurezza (edizione italiana di Sortie de Secours, una rivista belga) per la quale collaboravo. Io all'epoca ancora non sapevo cosa fare della mia vita, regista? scienziato? porno attore ?!) non avevo le idee chiare. Quando Fernando, il marito di Frances, lesse quel che scrissi nell'intervista disse a Frances non so cosa questo ragazzo voglia fare nella sua vita ma lui è uno scrittore. L'articolo non è mai stato pubblicato perchè la rivista chiuse i battenti prima. e' rimasta inedita tra le mie carte (faldone freelance con tutte le cose scritte dal 1980 in poi).
L'ho scansita, integrata in una parte mancante (l'originale è battuto a macchina ma mancano alcune righe) e la pubblico ora, sul mio blog, 26 anni dopo.

A rileggerla oggi sono sorprendenti la lucidità e la lungimiranza di Frances (l'unica differenza col dattiloscritto è il cognome lì  quello d'arte, qui quello vero) la sua capacità di dire le cose, di sentirle, di trasmetterle.

Ho pensato di fare cosa gradita a voi lurkers del mio blog e la pubblico con una foto d'eccezione della DIVA.

Oggi, al secondo anniversario della sua morte, Frances ci manca più che mai ed è sicuramente sempre viva dentro ognuno di noi, nel cuore e nella mente.



FRANCES NACMAN: IL CORPO E LA VOCE

Prendete gli Stati Uniti d'America e il su più piacevole prodotto: il Jazz. Pensate ad una affermata cantante di L'or Angeles, dalla particolare estensione vocale, dotata di diversi registri interpretativi, di una irresisti¬bile presenza scenica, capace di at-tirare anche un pubblico di sordomuti  e immaginatevi di trasferire tutto questo in Italia, nei locali della Roma nottambula e dal gusto Jazz.
Un’utopia, penserete, un esperimento destinato  a fallire.
Au contraire!
Frances Nacman è riuscita in tutto questo. Ha ridato vita a delle canzoni imprigionate nei solchi di vecchi dischi,tiene un corso di canto Jazz, insegnando la difficile arte dell’interpretazione, contribuendo a diffondere quel “quid” che distingue il Jazz da ogni altro tipo di musica.

PERCHÉ SEI VENUTA IN ITALIA?

L'Europa mi ha sempre affascinata, mi piace la sua cultura, la sua arte. Così ho colto al volo l'occasione offertami da una eredità, ho abbandonato tutto e tutti e sono venuta a vivere in Europa. Prima l’Inghilterra, poi la Francia e infine l’Italia. Giunta a Roma pensavo che la mia tappa successiva sarebbe stata la Grecia, ma ora non credo che lascerà l’Italia molto facilmente.

COME HAI DECISO DI CANTARE A ROMA

Quando sono  partita per l'Europa avevo deciso di non cantare più. Credevo fosse difficile per una cantante americana. trovare lavoro in altri paesi soprattutto in Italia.
Durante un mio lungo soggiorno in Nigeria a casa di anici, ho ripreso a cantare Ero accompagnata da una batteria, un basso e un piano elettrico, dato il clima era impossibile mantenere un piano acustico.)
Così, tornata a Roma, sentii che non potevo più fare a meno di cantare. Mi presentai al Billie Holyday Jazz Club e Nino De Rose mi fece esibire subito. Era la primavera del 1984.


COME TI SEI TROVATA?

Beh, la difficoltà Principale    è quella della lingua. Così ho pensato che sarebbe stato bello se prima di ogni canzone, avessi spiegato il significato del testo, l’idea della canzone, ed  è una cosa che il pubblico apprezza molto. Comunque il problema rimane, una canzone in inglese resta  incomprensibile per la maggior parte del pubblico italiano, così il feeling; che posso instaurare dipende dall'acting, dalle mie capacità sceniche d'interpretare le canzoni mentre, a differenza che negli States, il testo ha un ruolo irrilevante.


COSA NE PENSI DEL PUBBLICO ITALIANO CHE VIENE AD ASCOLTARTI? (pensa un po' prima di rispondermi)

Vedi, non vorrei che lo scrivessi, ma il pubblico italiano è distratto parla mentre io canto. Questo sempre a causa dell'inglese.
In America dove l'inglese è la mia lingua e quella del pubblico, la canzone si rivolge diretta-mente ad ognuno che mi ascolta, qui tutto dipende dalle mie capacità , da quanto riesco a catturare l'attenzione. Ma c’è anche un altro motivo. La televisione ha abituato lo spettatore a parlare mentre segue il programma con i familiari; difficilmente qualcuno seguirà un programma in tv senza dire una parola dall’inizio alla fine. Questa abitudine lo spettatore la mantiene anche quando viene a sentire un concerto di jazz. Anche per me è difficile rimanere in silenzio quando ascolto un concerto in inglese, in italiano proprio non ci riesco perché non capisco i testi delle canzoni.

TROVI DIFFERENZE TRA I JAZZ-MEN AMERICANI E QUELLI ITALIANI?

Certo. Il jazz nasce in America, fa parte della nostra cultura Qui in Italia è giunto dopo la guerra e quindi i jazz-men italiani sono ancora in fase di acculturazione, di maturazione. 20 anni fa c'erano molte più differenze che oggi. Ancora mancano dei grossi nomi italiani per quanto riguarda il jazz, ma i jazzmen con cui lavoro, pianisti, bassisti, batteristi, stanno formando un background del tutto analogo a anello americano. Una cultura jazz italiana mi sta formando ora.

TROVI DIFFERENZE TRA IL MODO DI FRUIZIONE DEL JAZZ IN AMERICA E qUI IN ITALIA?

Si, moltissima. Qui i jazz e soprattutto rhythm, ci nono contaminazioni con altre forme musicali la musica brasiliana, ma anche il Blues. Il vero Jazz qui in Italia è ancora per pochi e infatti i locali jazz nono molti di meno che in America. Ma non mi fraintendere. Io adoro la contaminazione. Anzi credo che i musicisti Jazz, come tutti i professionisti della musica, siano un po’ rigidi. Se fai jazz non segui il rock e viceversa. Il pop poi viene snobbato da tutti. Per me è importante tenersi informati anche sui questo tipo di musica, perché è la musica d’oggi che riscuote il suc-cesso del pubblico. Poi trovo l’avvento del videoclip moto stimolante, sono i nuovi film di oggi che si rifanno anche al passato. La capacità di sintesi si rifà ai film muti dei primi del secolo. Alcuni video mi colpiscono a tal punto che ogni volta che ascolto la canzone alla radio non posso scinderla dalle immagini del video.

UN’ULTIMA DOMANDA: C’è QUALCOSA CHE VORRESTI TI AVESSI DO-MANDATO?

rimane in silenzio. Ci pensa un po’. Fa cenno di no con la testa poi ci ripensa  e mi dice:
Qui in Italia ho trovato un forte interesse da parte dei giovai di voler conoscere il jazz, non come spettacolo passivo., ma come partecipazione attiva alla creazione di quel sound che rende il jazz LA musica.
Per questo io e Nino de Rose, insieme a Sandra Provost tengo un corso di canto Jazz al Tusitala.

7 ottobre 2010

Come ho scoperto Broadway, Stephen Sondheim e che the Broadway Album di Barbra Streisand è dozzinale.

Non ho mai apprezzato particolarmente i musical, un po' come l'opera. D'altronde i musical non sono un po' l'opera moderna?
Non sopportavo tutta quella snoberie frocesca e da fan maniacali.
E mentre dell'opera dicevo che forse l'avrei saputa apprezzare a 50 anni (it happened even before) del musical ho sempre pensato di poter fare a meno. Untill now.

Ma dobbiamo partire un po' prima per arrivare ad adesso.

Insomma nel 1985 esce The Broadway Album di Barbra.

Io allora credevo che a far brava una cantante fosse la voce, il fiato, la purezza delle note e, da questi punti di vista, quell'album è astonishing.
Tre sono in particolare le canzoni che mi colpiscono (ce ne sono altri nel disco che mi colpiscono ma che già conosco, anche bene, uno lo studio persino a scuola di canto).

Il primo è quello che apre il disco Puttin' It Togheter che trovo allegro e interessante da cantare ma troppo difficile e non ci provo mai sul serio a farlo.


Mi piace quella lotta tra l'artista e i produttori per quanto capisco del testo allora, way back to 1985.

Il secondo brano è un medley tra Pretty Women e Ladies Who Lunch.



Non conosco nessuno dei due quindi mi è difficile dire dove finisce uno e comincia l'altro, mi colpisce per l'energia dell'arrangiamento, per la melodia di entrambi.
E poi c'è Being Alive che provo inutilmente a cantare ma, allora, 25 anni fa, non ce la faccio né con l'inglese né con il fiato.




Capite che posso ammetterlo senza vergogna.

Quella canzone resta lì, ogni tanto la ascolto, provo a reggere il fiato... Niente.
Intanto gli anni passano.
Riprovo a cantarla come posso davanti a Daniele ma il fiato mi manca ancora (l'inglese invece è migliorato, ora capisco il testo e mi piace pure!).

Provo a studiare la canzone, siamo già nel 2000 e su youtube scopro la versione originale. La trovo lenta e noiosa con sostanziali differenze rispetto la versione di Barbra (la versione orignale è intervallata da recitativi) e nella struttura melodica, tra cui la più vistosa è l'acuto finale che nell'originale è di un paio di toni sotto (ma come?!?!).

Abbandono subito la versione del musical e incenso la forma canzone senza i recitativi e tutto il resto (l'opera... una cosa da pazzi, penso allora). Ancora più di recente ascolto altre versioni della canzone sempre nella sua forma espunta dai recitativi e, a parte una notevole versione di Patti LuPone...

...nessuna altra versione mi sembra raggiungere le vette di quella di Barbra.

Poi la mia vita privata cambia sensibilmente. Anche abbastanza in fretta. Torno ad essere single, una zitella se preferite, e quel but alone is alone non alive inizia a parlarmi come prima non aveva mai fatto.

Poi muore Frances e but alone is alone non alive acquista persino un'ombra amara.

La versione di Barbra comincia a sembrarmi troppo disinvolta e fin troppo allegra, adesso è il patos di LuPone che trovo irresistibile.
Nel frattempo ho scoperto l'interpretazione, che fa di Mina la più grande cantante del mondo e Paty LuPone migliore di Barbra.  Insomma riconsidero persino la versione del musical coi recitativi... Scopro che il brano è tratto da Company un musical, testo e musica di Stephen Sondheim, del 1970. Siamo nel 2009.
Scarico da internet una registrazione moderna del 2007 del musical, ma mi limito ad ascoltare la canzone tanto amata che, scopro, è quella che chiude il Musical Comedy.


Lui è Raul Esparza e capisco subito che le cose sono completamente diverse dalla canzonetta di Barbra. Questa canzone racconta una storia e nonostante la bravura vocale è l'interpretazione quel che mi colpisce.
Si vede che non sono più il ragazzino del 1985.
Quei recitativi non solo sono parte integrante della canzone, non solo non mi danno più fastidio ma, anzi, quelle esortazioni mi commuovono.  Mi sembra di sentire Frances... Anche se,  in fondo, è solo l'ottimistico pragmatismo americano. Ma mi commuove lo stesso, fino alle lacrime. E a volte ai singhiozzi.


Poi qualche sera fa decido, così all'improvviso, dopo una full immersion nei serial tv (mi sono sparato nell'ordine la prima stagione di Glee, la prima e seconda di The United States of Tara, quarta quinta E sesta di Desperate Housewives), di vedere Company, per intero.
Mi investe come un treno ad alta velocità.
Per la complessità della partitura armonica e melodica.
Perché capisco tutto quel che dicono (per le canzoni mi aiuto con dei testi che trovo online).
Perché quel che dicono non solo lo capisco, ma mi piace e mi diverte, oltre a commuovermi.

Perché trovo i personaggi grandiosi, c'è anche un gay ancora ben chiuso nell'armadio.
Perché ha una struttura narrativa ardita per i tempi.
Perché mi piacciono la regia la regia, l'allestimento, la musica e i testi.


E scopro che oltre Being Alive anche The Ladies Who Lunch è tratta da Company. Mentre Pretty Women è sempre da un suo Musical, Sweeny Todd (del 1979, con Angela - signora in giallo-Lensbury).
Ed è allora, cioè  qualche giorno fa, che realizzo che The Broadway Album è un album  superficiale, musicalmente discutibile, che banalizza le canzoni.


Prendiamo The Ladies Who Lunch. Avete sentito come la versione di Barbra è precisa, elegante, disinvolta. In Company ha un singificato diverso. Intanto è cantata da Joanne, una delle amiche di Bobby, il protagonista del Musical, l'unico scapolo del suo gruppo di amici, gran tombeur de femmes. Joanne è la meno giovane delle amiche di Bobby, al terzo matrimonio, apparentemente la più forte, quella prevaricatrice, la virago della situazione, che, dopo aver bevuto molto e calata la maschera si dimostra in realtà molto più fragile e umana di quel che fa finta di essre canta questo brano, il cui testo ha dunque un significato ben di verso da quello sofisticato (adulterato) di Barbra e, soprattutto, l'interpretazione, da ubriaca, quasi stonata, cozza con l'algida perfezione elegante di Barbra.
Ecco la versione STU-FUCKING-PENDA di Barbra Walsh.



Here's to the ladies who lunch--
Everybody laugh.
Lounging in their caftans
And planning a brunch
On their own behalf.
Off to the gym,
Then to a fitting,
Claiming they're fat.
And looking grim,
'Cause they've been sitting
Choosing a hat.
Does anyone still wear a hat?
I'll drink to that.

And here's to the girls who play smart--
Aren't they a gas?
Rushing to their classes
In optical art,
Wishing it would pass.
Another long exhausting day,
Another thousand dollars,
A matinee, a Pinter play,
Perhaps a piece of Mahler's.
I'll drink to that.
And one for Mahler!

And here's to the girls who play wife--
Aren't they too much?
Keeping house but clutching
A copy of LIFE,
Just to keep in touch.
The ones who follow the rules,
And meet themselves at the schools,
Too busy to know that they're fools.
Aren't they a gem?
I'll drink to them!
Let's all drink to them!

And here's to the girls who just watch--
Aren't they the best?
When they get depressed,
It's a bottle of Scotch,
Plus a little jest.
Another chance to disapprove,
Another brilliant zinger,
Another reason not to move,
Another vodka stinger.
Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhh!
I'll drink to that.

So here's to the girls on the go--
Everybody tries.
Look into their eyes,
And you'll see what they know:
Everybody dies.
A toast to that invincible bunch,
The dinosaurs surviving the crunch.
Let's hear it for the ladies who lunch--
Everybody rise!
Rise!
Rise! Rise! Rise! Rise! Rise! Rise! Rise!
Rise!

Ma di questo allestimento - capolavoro avremo ancora modo di parlare...
bello essere
quello che si è anche se si è
poco
pochissimo
niente


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